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A Berlino vent'anni fa era lì il cuore del mondo.

Intanto, Berlino. Bellissima e irreale in quelle fatidiche ore in cui il muro c'era ancora, ma era già scomparso nella testa dei berlinesi. Dissolto, virtualmente liquefatto sotto la spinta di quella fiumana umana che la sera del 9 novembre varcò le porte proibite in un baccanale di feste, di grida, di incontri, di luci, di pianti, di balli.
Una gioia repressa per anni, che in due ore divenne lava incandescente, intoccabile. Non poteva essere fermata, e non poteva tornare indietro. Era proprio così Berlino, bellissima e caotica, percorsa da un fremito senza fine, quando i giornalisti di tutto il mondo si abbatterono su di lei.
L'annuncio, quella strana sera di venti anni fa, aveva colto tutti di sorpresa. Si sentiva che l'eruzione era imminente, perchè nella vecchia Rdt le cose stavano cambiando in fretta, ma poi il caso e l'astuzia della storia ci misero lo zampino. Un corrispondente dell'Ansa, che comprensibilmente se ne vanta, fece una domanda a Guenther Schabowski, l'incauto portavoce del partito comunista, che disse la cosa sbagliata nel momento giusto ("credo che si possa passare da subito senza restrizioni", rispose). Non era quella la risposta prevista, (le autorità pensavano a una liberalizzazione più graduale dei permessi di viaggio) ma a quel punto il tappo del vulcano era saltato. La lava uscì, migliaia di persone con le loro mitiche Trabant, a piedi, in bicicletta, si riversarono ai punti di passaggio. I primi a rendersi conto della piega degli eventi furono proprio i severissimi e terribili Vopos, la polizia della Rdt che ai controlli faceva vedere i sorci verdi a tutti. Non ostacolarono nulla, tentarono solo di regolare un traffico che era inarrestabile. Così nella notte, mentre i berlinesi sciamavano increduli nella città proibita, ossia l'altra fetta di Berlino che fino ad allora avevano visto e immaginato dalle radio e dalle televisioni dell'Occidente, iniziava ad arrivare la stampa di tutto il mondo. E allora Berlino divenne un cuore pulsante. Fu il più pazzo week end della storia della città. Sotto gli occhi del mondo due milioni di tedeschi dell'est invasero l'ovest riprendendosi quello che la storia, pochi decenni prima gli aveva sottratto. Andavano per incontrare parenti lasciati trent'anni prima, per vedere familiari conosciuti solo in foto, oppure andavano per gustarsi la Berlino immaginata, le vetrine sognate, lo sfavillio della Kurfuerstendamm. Per fare shopping, cercando cose piccole e poco costose, possibilmente elettroniche. Accolti come fratelli, almeno i primi giorni. Aiutati con una manciata di marchi, quelli buoni. Le telecamere, i fotografi, ripresero tutto. Ognuno che andò si prese, come poteva, un pezzo di muro, un cimelio da riportare a casa. Per poter dire, come era scritto sulle spillette coniate in tutta fretta e vendute sulle bancarelle, ich war dabei (io c'ero).
C'erano tre milioni di persone che 28 anni prima, dalla sera alla mattina, videro crescere il mostro grigio e la metà o più si ritrovò nel paese sbagliato. Il muro attraversava impietosamente quartieri, parchi, piazze, giardini, cortili. In qualche vecchio cortile, sotto il muro avevano fatto un orto, piantato qualche geranio, adesso la quiete pesante di anni veniva sollevata da migliaia di occhi curiosi che si chiedevano, in fondo, una cosa sola: come era stata possibile, quella follia. Prima ancora che il muro fosse abbattuto, persino troppo in fretta, dalle ruspe e dai picconi dei ragazzi arrivati anche loro da tutta la Germania e da tutto il mondo, Berlino apparve per quello che era sempre stata: una città straordinaria, densa di storia e lieve di spirito, nonostante tutto. Il muro a suo modo aveva persino incrementato il fascino. Anche l'U-Bahn, il metrò, era stato diviso dalla storia. Dopo la riunificazione della Germania, avvenuta a tempo di record, nemmeno un anno dopo la caduta del Muro, furono ritrovate e ripristinate linee che erano state dimenticate, perchè le stazioni e i binari erano stati separati. Qualcuno ci raccontò che al tempo del Muro, c'erano tedeschi dell'est che andavano nelle vecchie stazioni dismesse e ascoltavano il rumore dei treni che andavano “dall'altra parte”, quelli che portavano verso la libertà. Passavano ore, in ascolto.
Chi arrivava a Berlino in quelle ore capiva che la storia non si sarebbe fermata. Del resto Gorbaciov, un mese prima, l'aveva spiegato a Honecker e ai grigi capi della Rdt, che la storia punisce chi si fa trovare in ritardo. Il leader della Perestrojka aveva ricevuto un'accoglienza popolare straordinaria, poi c'erano state le grandiose manifestazioni a Lipsia e Berlino, migliaia di tedeschi dell'est erano già fuggiti a ovest attraverso altri paesi dell'est che avevano aperto le frontiere. Il tappo sarebbe saltato in ogni caso, eppure nella Rdt ci fu chi pensò a reprimere nel sangue le manifestazioni. Kurt Masur, intellettuale raffinato e grande direttore d'orchestra, raccontò nelle settimane seguenti che dovette spendere tutta la sua influenza presso i vertici della Rdt per convincere i capi del partito e del governo a evitare la repressione. Sarebbe stato un bagno di sangue, una tragedia che avrebbe riprecipitato il mondo nel pieno della Guerra fredda. Kurt Masur, undici mesi dopo la caduta del Muro, nel giorno della storica riunificazione della Germania, diresse a Berlino un memorabile concerto con la sua fantastica Gewandhaus di Lipsia: suonò, come era scontato, la nona di Beethoven, con l'Inno alla Gioia. Chissà se avrebbe suonato e cosa, un anno dopo, se la storia si fosse presentata col volto dei falchi della Rdt e del Kgb.
Nonostante tutto, i primi giorni, quando un giornalista da ovest voleva entrare a Berlino est, la prima volta doveva passare il suo classico travaglio burocratico. Fatto di domande, di timbri, di tempi un po' snervanti. I “Vopos” facevano ancora paura. Tutto dava l'idea di un regime in via di trasformazione, incerto su come governare la pressione crescente. Non dava l'idea, allora, di un sistema che sarebbe crollato in dieci mesi. Ma la realtà era diversa. Il regime tentava di difendersi annunciando riforme, cambiamenti al vertice, liberalizzazioni, evocando miraggi di pluralismo. Durante il pazzo week end berlinese dopo la caduta del Muro, a Berlino est il servizio d'ordine per far defluire la gente era organizzato in parte da attivisti della Sed, il partito comunista della Rdt. Erano gentili e sorridenti, nella sorpresa generale, lontani anni luce dall'iconografia dei funzionari di partito grigi e arcigni. Partecipavano a una festa di tutti, ma non era la “loro” festa. Una banale verità si affermò nel giro di poche settimane: quel sistema era irriformabile, l'onda non si sarebbe fermata con piccole dighe. Si iniziò presto a parlare di riunificazione e Helmut Kohl, colse al balzo l'occasione storica irripetibile. Ci ha creduto fin dall'inizio, il cancelliere, molto più della Spd che preoccupata delle possibili conseguenze sociali, economiche e internazionali, considerava l'unificazione un passaggio successivo. Kohl invece andava come un treno. Convinceva Gorbaciov, rassicurava Bush, si intendeva con Mitterand, isolava la Thatcher che mugugnava “rieccoli, i tedeschi”. Kohl andò a Lipsia un mese dopo e fece, lui cancelliere dell'ovest, un grandioso comizio. C'era mezza città, il tabù era rotto, i tedeschi dell'est sentivano che il regime stava morendo. Con alcuni colleghi italiani, pochi giorni dopo il 9 novembre, andammo a intervistare un grigio esponente della Sed, di cui onestamente non ricordo nemmeno il nome, e gli chiedemmo che cosa sarebbe successo se qualcuno avesse iniziato a chiedere un referendum sulla riunificazione e se avessero vinto i sì. Lui balbettava, diceva che poi se fosse arrivato il capitalismo, e la Rdt fosse scomparsa, ci sarebbero state sollevazioni popolari, perchè tutti avrebbero perso uguaglianza, diritti, certezza del lavoro, sicurezza sociale. Lo guardammo, perplessi. I venti anni che separano l'oggi da quei giorni raccontano una realtà chiara, ma senza tinte forti, piena di sfumature. Pochi tornerebbero indietro alla Rdt, ma la maggioranza degli ex tedeschi dell'est ha scoperto che l'altra parte, quella della libertà e della ricchezza, non è poi così luccicante come credeva.

In questi giorni di rievocazioni vale la pena di leggere i risultati di una indagine dell'Università di Berlino: “Nessun tedesco vissuto fino al 1989 nella Rdt vorrebbe riavere il Muro, nessuno tornerebbe a quel sistema politico. Ma molti rimpiangono una società più egualitaria e la maggior parte di loro, quando i nostri colleghi vanno sul campo a fare inchieste, definisce il valore dell'uguaglianza più importante di quello della libertà, a differenza di quanto fanno i loro connazionali che non sono vissuti dietro al Muro tra il 1961 e il 1989...”. Anche un'altra indagine va letta. Per paradosso nell'Ovest sono di più che a est quelli che vorrebbero il ritorno alla situazione di prima. Certo i tedeschi pagano ancora una tassa per la riunificazione e si capisce la provocazione, ma questo spiega che la storia va letta con tutte le sfumature, non con l'ideologia.
Eppure Berlino est era la parte più bella e monumentale della città, quella dell'Alexander Platz, della storica Unter den Linden con i musei, i teatri, con lo sfondo della Porta di Brandeburgo. C'era una patina grigia, un'aria sonnolenta e densa, che l'avvolgeva, l'opposto dell'anima frizzante e moderna, luccicante dell'Ovest. Il Muro è caduto quella sera, eppure quest'aria è rimasta per anni. Non era solo un fatto architettonico, o visivo, di ricchezza materiale percepita, di colori, di modelli di auto, di cartelloni, di vestiario delle persone, era proprio un'atmosfera. Chi viveva a Berlino diceva che anche andando in macchina con gli occhi bendati, avrebbe capito se stava a ovest o a est.
In quei giorni, mentre i media di tutto il mondo parlavano di quella lava inarrestabile, succedeva che il Pci si ritrovò il problema di cambiare il suo nome, carico di storia, di passioni, di lacrime e di sangue, di grandi battaglie di libertà, ma anche di fatali ritardi. Lo fece in modo sofferto, ma per chi stava a Berlino, in quelle ore, c'era un modesto privilegio: non ci potevano essere dubbi sul fatto che quel nome glorioso andava cambiato. Subito. Anzi, andava fatto prima.

Bruno Miserendino.





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