Il rapporto di De Martino con
l’idealismo è condizionato, fin dall’inizio, da un fatto elementare, che
pure ha un’importanza non trascurabile: dal fatto che i suoi interessi
si volgono subito all’etnologia, al problema del primitivo.
Questa non è una semplice scelta disciplinare (l’etnologia, per De
Martino, non è una scienza autonoma, è parte integrante del sapere
storico); è una scelta che evoca un nodo concettuale, capace di
determinare una trasformazione nel paradigma dell’idealismo. Quando, in Naturalismo e storicismo,
De Martino sottolinea che la metodologia crociana si è arrestata di
fronte al problema del primitivo; e quando, nella commemorazione del
1946, afferma che Adolfo Omodeo incontrò un “limite” nella sua opera,
perché rimase fedele alla “forma canonica” dell’idealismo, egli vuole
dire una cosa precisa: che la ricerca etnologica ha un significato non
solo per la migliore comprensione delle civiltà primitive, ma anche per
una generale riformulazione del problema dell’idealismo.
La questione potrebbe essere espressa in questi termini. Nel quadro di Naturalismo e storicismo,
l’etnologia non è soltanto quella “parte” della considerazione storica
che consente l’“allargamento della nostra autocoscienza”, ma è quella
parte che realizza l’autocoscienza storica, perché costituisce
il principio distintivo più radicale, quello in cui la “civiltà” viene
più precisamente individuata. La differenza tra il primitivo e il colto
non si limita a colmare una lacuna, a riempire un vuoto, ma intende
riempire quella lacuna e quel vuoto il cui significato
si pone alla radice dell’idea della storia come storia contemporanea. È
per questa ragione, direi, che fin dall’inizio, nella storiografia di
De Martino, acquista particolare importanza il problema dei punti di
frattura, delle discontinuità, delle grandi opzioni del percorso
storico. Quella di De Martino è una storiografia orientata alla
determinazione delle grandi deviazioni della storia: «il grande albero
della storia – scrive – si diffonde in una molteplicità di rami, e noi
ci troviamo in uno solo di essi. Compito dell’etnologia è, sì, di
ripercorrerne a ritroso quella linfa che ci alimenta e che proviene da
lontane radici, ma al fine di cogliere quei punti in cui la corrente
devia verso l’alto, in una direzione diversa da quella da cui
proveniamo. Sono questi i punti in cui, fra le infinite possibilità di
vita e di sviluppo, il corso del divenire si è ulteriormente
differenziato secondo rami più o meno divergenti. Ora la individuazione
di queste alternative da cui siamo usciti determina meglio ciò che noi
siamo, qui e ora».
L’etnologia, in quanto sa cogliere la deviazione fondamentale, quella che costituisce il senso della civiltà (che è una polemica, cioè un continuo escludere e includere il primitivo), arriva a realizzare
l’autocoscienza storica, la storia come storia contemporanea, che parte
dal presente e si diffonde verso il passato. Non solo essa non è
naturalismo e filologismo (tempo, spazio, causa), ma è la parte del
sapere storico che mette in scacco quelle impostazioni metodologiche.
D’altra parte, questo fu l’aspetto forse più indigesto del libro: se si
leggono con attenzione le recensioni di Omodeo e Antoni, in fondo si
scorge questa resistenza, questo dubbio sul significato storico dell’etnologia.
Certo, nello svolgimento del suo
programma (che era, dunque, ambizioso anche sul piano filosofico), De
Martino si affidò ai concetti fondamentali della filosofia di Croce.
Oltre a quello, già ricordato, della contemporaneità di ogni storia,
diede largo spazio alla distinzione di intelletto e ragione, cioè alla
distinzione crociana di comprensione teoretica e volizione pratica, e al
grande tema (da lui giustamente concepito come un grande tema
antimetafisico) dell’identità di filosofia e storia, con la conseguente
concezione della filosofia come metodologia della storia, come
schiarimento delle categorie costitutive della realtà. Ma al di là di
questi elementi, che più o meno entrarono nella formulazione che Croce
ne aveva elaborata, il problema che lo impegnò di più fu certamente
quello del rapporto tra “piano ideale” e “piano storico”. Non a torto,
egli avvertì questo come il problema fondamentale dell’etnologia, come
il problema stesso della definizione del primitivo.
Quando si leggono i testi di De Martino,
questo problema va colto nella sua effettiva drammaticità. Per certi
versi, noi rischiamo di essere condizionati dalla critica che, a
proposito del Mondo magico, Croce gli rivolse sulla
“storicizzazione delle categorie”. Il condizionamento che il testo di
Croce può operare su noi lettori, rischia di farci, se non dimenticare,
certo attenuare, alcuni aspetti. Il primo aspetto riguarda il fatto che
questo problema, destinato a emergere nella problematica etnologica, è
bensì un problema che De Martino ha contribuito a portare alla
superficie, ma è un problema che attraversa tutta la filosofia
dell’idealismo. Il problema del rapporto tra “piano ideale” e “piano
storico”, tra ontologia e fenomenologia, è un problema che appartiene
alla filosofia di Croce non meno che a quella di De Martino; anzi, per
essere più precisi, attraversa già l’idealismo tedesco, in particolare
la filosofia di Hegel. Se dunque De Martino si scontrò con questo nodo,
ciò non significa che costituisse una propria, esclusiva, difficoltà.
Bisogna ricordare, poi, che il problema della “storicizzazione delle
categorie”, sollevato a proposito del Mondo magico, era già centrale in Naturalismo e storicismo. Ma perché e in che senso vi era centrale? Quasi a ogni pagina, De Martino cercò di avvertire che il primo ideale non è il primo storico,
che le categorie non sono fatti della storia ma forme regolatrici della
storia. Forse nessun altro autore dell’idealismo italiano cercò con
tanto vigore di sfuggire quel rischio teoretico, che va sotto il nome di
“storicizzazione delle categorie”.
Riuscì De Martino a evitare quel rischio
nella concreta esecuzione del suo progetto? Questo è, ovviamente, il
problema. Intanto, cosa significa qui “piano ideale”? Cosa intendiamo
dire quando affermiamo che le categorie sono tali idealmente e
non vanno confuse con il loro apparire empirico, in modo che, per
esempio, il primo nell’ordine del tempo viene confuso con il primo in
senso ideale? De Martino spiegò questo punto con precisione in Naturalismo e storicismo.
Nelle pagine centrali del secondo saggio, richiamandosi all’antinomia
kantiana delle idee cosmologiche, affermò che la struttura categoriale
esprime il senso stesso della dialettica, del rapporto di interiorità di
finito e infinito: ciò che, nel linguaggio più consueto della
filosofia, significa la realtà individuata, la determinazione,
l’esistenza. Come Croce aveva spiegato nella Logica, a
proposito del giudizio individuale e della sintesi a priori, la
struttura categoriale manifesta la struttura stessa della realtà, nel
suo significato ultimo e invariabile.
Tuttavia, la definizione del “piano
ideale” delle categorie non era sufficiente, anzi era radicalmente
insufficiente, a rendere ragione dell’etnologia come disciplina storica.
De Martino si trovò di fronte al serio problema di “convertire” quella,
che era soltanto una posizione filosofica, in una
configurazione della storia e del divenire. Nel tentativo di operare
questo passaggio ricorse a due tesi fondamentali. La prima tesi non era
in verità originale, perché aveva potuta leggerla nella Storia come pensiero e come azione
di Croce. Consisteva nell’idea che una cosa sono le forme categoriali,
che costituiscono la regola del divenire e che dunque non sono soggette
al mutamento, e altra cosa è la coscienza di quelle forme, che invece si istituisce e muta nel tempo. In tale senso Croce, per esempio, nel famoso articolo sul Perché non possiamo non dirci cristiani, aveva potuto affermare che la rivoluzione cristiana scoprì
la coscienza morale. Ma la distinzione tra categoria e coscienza della
categoria diventava fondamentale in De Martino, perché proprio in questo
spazio cominciava a delinearsi la questione del magismo, cioè di quel
“drammatico passaggio” in cui individuo e cosmo si separano e in cui si
libera “la potenza laica dell’intelletto”.
La distinzione tra categorie e coscienza
delle categorie consentiva a De Martino di operare il passaggio dal
“piano ideale” al “piano storico” senza il quale il progetto di
un’etnologia storicista non poteva essere eseguito. Ma più complessa era
la seconda via seguita da De Martino, quella che metteva capo alla
definizione del primitivo come prevalenza dell’intuizione sul
concetto e dell’utile sul morale. Nella densa pagina del saggio su
Lévy-Bruhl in cui raccolse il senso di questa meditazione, De Martino
sottolineò che questa non era una “storicizzazione delle categorie”, ma
caso mai un modo di evitarla. In quella pagina affermò che, “in senso ideale,
primitiva è la fantasia nella cerchia teoretica e la pura economicità,
la pura vitalità economica, nella cerchia pratica”. E subito aggiunse,
cercando di convertire il “senso ideale” nel “senso storico”, che “fermo
il concetto di primitivo in senso ideale, diconsi primitive in senso reale e storico quelle età e quelle culture in cui prevale la fantasia e la economicità”.
Sul significato di questa “prevalenza”
bisognerebbe indugiare a lungo. Anche Croce aveva parlato di un
“prevalere” tra le forme categoriali. Nella filosofia di Croce, la
“prevalenza” di una forma significava che la forma attuale,
cioè nell’atto del suo affermarsi, include la compresenza delle altre
forme come la sua materia e contenuto: al modo, per esempio, che
l’artista lascia prevalere l’intuizione, cioè dà forma
intuitiva a concetti, volizioni, posizioni morali. Già in Croce questo
concetto della “prevalenza” era molto problematico, presupponeva la
distinzione (aristotelica, kantiana) tra forma e materia nel darsi della
realtà individuata. Ma in De Martino la questione assumeva un altro
aspetto. Il prevalere dell’intuizione sul concetto non significava che
l’intuizione tratteneva in sé e includeva il concetto, già manifestatosi
nella sua pienezza e decaduto in quanto forma; ma significava che, nel
primitivo, l’intuizione possedeva un’energia in sé potenziata, più
forte, rispetto a quella depotenziata e debole del concetto.
Significava, perciò, un più e un meno, e quindi, per logica conseguenza, anche un prima e un dopo.
La nozione di “prevalenza” usciva così dal pur problematico paradigma
della forma e della materia, per delineare quello, del tutto diverso,
del potenziamento e del depotenziamento.
Ma come altrimenti era possibile
definire il primitivo se non al prezzo di questa forzatura sul piano
della filosofia? Il problema del “prevalere” non riguardava soltanto il
passaggio dal “senso ideale” al “senso reale e storico”, cioè il
passaggio dalle categorie al divenire, ma toccava già il solo “senso
ideale”, toccava la pensabilità della struttura categoriale all’interno
del discorso filosofico, della scientia qualitatum, come Croce
la definiva con Baumgarten. Ma la via era stretta e obbligata. Il
progetto di costruire l’etnologia (cioè di definire il primitivo) in
termini filosofici portava a questa conseguenza. E forse non era un caso
se quel concetto non aveva trovato uno spazio nella “metodologia
storica” di Croce.
Cosa aggiunse la ricerca del Mondo magico a questa prospettiva teorica? A mio modo di vedere, tra le due opere di De Martino – Naturalismo e storicismo e il Mondo magico
– occorre sottolineare una forte discontinuità, almeno sotto il profilo
filosofico, nonostante il fatto che nella prima opera si trovino spunti
(come il magismo) che verranno tematizzati nella seconda. Come ho
accennato, in Naturalismo e storicismo il “primitivo” era
interpretato nella difficile prospettiva della “prevalenza” di alcune
forme categoriali rispetto ad altre: assunta da Croce la distinzione tra
comprensione teoretica e volizione pratica, De Martino osservava, nel
“primitivo”, il prevalere, in ciascuna di queste forme, della categoria
più elementare, dell’intuizione rispetto al concetto e dell’utilità
economica rispetto alla sfera morale. Per quante difficoltà questo
paradigma poteva sollevare, in questo modo il mondo primitivo restava
interpretato attraverso le categorie della filosofia dello
spirito. Le une (intuizione e utile) si presentavano più intense, le
altre (concetto e moralità) meno intense, ma comunque era conservato il
concetto fondamentale dell’idealismo crociano, quello della compresenza
delle forme. Pur prevalendo una forma sull’altra, il primitivo era
individuato attraverso quelle forme, e, sia pure con uno
squilibrio interno tra l’una e l’altra, al fondo di quella definizione
vi era la sintesi e l’unità di tutte le categorie. Quelle categorie
restavano costitutive tanto del mondo primitivo che del mondo culto, e
perciò potevano ancora essere intese quali regole del divenire, nella
loro necessità.
Ma nel Mondo magico questa situazione mutò. Ora De Martino si era persuaso che il magismo non poteva essere definito attraverso
quelle categorie. Perciò, non poteva più parlarsi di “prevalenza”: era
l’insieme di quella struttura categoriale a non funzionare più. Come
scrisse, con particolare efficacia: “ogni sistemazione filosofica che
riconosca solo le forme tradizionali (per es. il sistema crociano delle
quattro forme) esprime, in sostanza, il momento metodologico di una
esperienza storiografica limitata alla civiltà occidentale, e pertanto
trae alimento da un umanesimo circoscritto”. Nell’articolo Intorno al magismo come età storica,
a Croce non sfuggì il punto saliente della questione: che, a rigore,
non era nelle pagine più “filosofiche” del secondo saggio, ma in quelle,
più “etnologiche”, del primo e del terzo saggio, dove De Martino
s’interrogava sul concetto di realtà. Per l’idealismo crociano
(e Croce lo ricordò) il problema della realtà, o dell’esistenza, così
come era stato affrontato nella Logica e poi nella Filosofia della pratica,
coincideva con la struttura del giudizio individuale: era l’unità delle
forme, la loro sintesi a priori, che definiva la struttura stessa della
determinazione.
Ma, ripeto, proprio questo concetto di realtà
entrava in crisi nella nuova meditazione che ora De Martino proponeva.
Ed era questa crisi, che chiamava in causa la “categoria giudicante”,
che spingeva De Martino a non concepire più la realtà come unità delle
forme, e che lo rinviava verso una nozione più originaria: cioè verso il
concetto di presenza e, correlativamente, di crisi della presenza. La centralità del concetto di presenza deriva dalla persuasione di De Martino che il primitivo non si lascia intendere attraverso le categorie; e che, anzi, le categorie costituiscono un risultato, l’esito di una mediazione, di un dramma che vede la presenza come protagonista.
Qui bisognerebbe indagare con cura le
parole, i concetti, il vocabolario, a cui De Martino si volse.
Bisognerebbe decifrare la sua lingua filosofica. La parola presenza ha avuto molti e diversi usi nella filosofia. Negli stessi anni la troviamo, per fare un solo esempio, nelle Lezioni di filosofia
di Guido Calogero. Ma qui, in De Martino, assume un significato
diverso. Non è, come in Calogero, il precipitare del passato e del
futuro nella struttura ferma dell’Io. Nel Mondo magico il concetto di presenza indica due cose. In primo luogo, presenza significa l’esperienza di una consistenza ontologica, di un determinarsi,
che si afferma attraverso un’opera di distacco (quella simboleggiata
dallo sciamano), un distanziamento del mondo esterno, dell’alter ego. È il principio di una differenza, e perciò di una determinazione. In secondo luogo, la presenza
indica qui una situazione più originaria delle categorie crociane e
persino della loro unità sintetica, perché è, a sua volta, il risultato di un dramma, un risultato storico. Ma bisogna fare attenzione a questa storicità
della presenza: perché la presenza non è un risultato storico (un
“risultato mediato”, dice De Martino) al modo stesso in cui lo sono le
categorie tradizionali. La presenza è storica in un senso diverso: perché emerge da un conflitto che è, appunto, primitivo, i cui termini costituiscono davvero il fondo dell’esperienza umana, e sono perciò storici nel momento stesso in cui sono istitutivi di una storicità.
Croce rimproverava a De Martino
(giustamente dal suo punto di vista) che le categorie non sono
“formazioni storiche, prodotti di epoche dello spirito, ma tutte sono lo
spirito stesso che crea la storia”; e che, nell’intendere le categorie
come “il momento metodologico di una esperienza storiografica limitata
alla civiltà occidentale”, si veniva “a distaccare con un taglio
impossibile l’unità spirituale dalle sue forme, che non sono aggiunte a
quell’unità, ma sono l’unità stessa, onde, a volere considerare questa
per sé, resterebbe nelle mani nostre un’unità, peggio che inerte,
vuota”. Bisogna portare una certa attenzione sulla critica di Croce e
sulle repliche, sull’“autocritica” successiva, di De Martino. Spostando
il centro della considerazione dalla sintesi categoriale al dramma della
presenza, De Martino non aveva solo “storicizzato” le categorie. Non
bisogna credere, cioè, che De Martino si limitasse a opporre la storia,
la storicità, il divenire, al carattere eterno della struttura
categoriale. Non meno della struttura categoriale crociana, anche il
dramma della presenza si presentava come la forza capace di regolare il
divenire, di anticiparlo e di dargli una forma. Non a caso, nelle sue
“autocritiche”, De Martino distinse saggiamente due aspetti: disse, e
ripeté, di avere “successivamente respinto la postulazione di un mondo
magico come età storica”; ma aggiunse (e questo era il punto
sostanziale) che nel Mondo magico restava “un nucleo valido, e
cioè la tesi della crisi della presenza come rischio di non esserci nel
mondo”. Che era un modo sottile di scansare l’equivoco della
“storicizzazione”, riaffermando però il senso filosofico della sua
posizione: cioè che non attraverso le categorie tradizionali, ma attraverso il dramma della presenza si doveva intendere l’essenza del concetto di realtà e l’origine della determinazione.
La filosofia di Croce restava dunque il
riferimento principale della riflessione di De Martino. Ma certo non
poco di quella filosofia era stato rivisto e corretto. De Martino aveva
rivolto una critica (più o meno adeguata) alla filosofia di Croce. Ma
questo non significa che, con quella critica, De Martino uscisse,
diciamo così, dai “confini” dell’idealismo. Se per idealismo s’intende
ciò che si deve intendere, cioè l’oltrepassamento del principio del
realismo e la posizione per cui il finito è ideale, allora il Mondo magico costituisce una riaffermazione di questo concetto. Questo è il punto fondamentale della riflessione di De Martino: il dato, come lo chiamava, non è esterno, cioè non è reale, ma è ideale. Solo che questa idealità
assunse la figura radicale del «risultato mediato» (come lo definì), di
quel movimento iniziale per cui il rischio supremo della crisi è
incluso nel trascendersi della presenza, che in effetti non è altro che
questo trascendersi e questo includere la negatività del proprio rischio
costitutivo.
In questo modo, l’idealismo di De
Martino tendeva alla definizione di un rinnovato concetto di realtà.
Questo di “realtà” sembra a me il concetto-chiave e conclusivo del Mondo magico. Da un lato, la presenza non poteva essere risolta nel sum
delle filosofie razionaliste né nell’appercezione kantiana, perché –
spiegava De Martino – le filosofie del soggetto considerano ancora la
presenza come un dato, mentre la presenza deve essere intesa come mediazione,
come compito. D’altro lato, però, il concetto di presenza non poteva
essere risolto nell’unità delle categorie crociane, perché rinviava a
una mediazione più originaria, capace di rendere possibili le stesse
valorizzazioni categoriali. Colta tra questi due poli (la datità del sum
e la sintesi categoriale) il concetto di presenza cercava di esprimere
il significato elementare della realtà, della determinazione: come
l’originaria inclusione del negativo (del rischio della crisi) in una
positività (la presenza, appunto) sorpresa nell’atto del proprio
mediarsi e trascendersi.
Marcello Mustè
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