Una nave
appena salpata che senza fretta spumeggia sulle acque, lasciandosi alle spalle
il grigiore del porto appena abbandonato. Una nave grande, in legno di abete,
costruita con maestria, proprio come si faceva un tempo. Attorno ad essa una
foschia leggera che la avvolge sottilmente, ma senza ottenebrarla. Il cielo di
sopra è grigio e non sembra felice dell'aria che lo circonda. Dei gabbiani
intanto volteggiano in semicerchi, formando arabeschi non decifrabili.
La
nave è bella; la nave confonde l'occhio e la visione.
Su
di essa alcuni marinai con divise bianco-azzurre, passeggiano sulla grande
stiva, scambiandosi di rado parole e riflessioni.
Questi
marinai, abituati al viaggio come alla visione, hanno un corpo statuario, occhi
che dardeggiano, un'eleganza innata nel portamento. Sono belli e maledetti
questi uomini del mare. Nessun però li può ben capire, nessuno può esplicitare
la magia dei loro sguardi.
Non
sono che un piccolo gruppo, ma la loro presenza scintillante riempie e colma la
nave. A vederli mentre si allontanano, si direbbe che qui dalla terra ferma fa
uno strano effetto seguirli in questa loro peregrinazione. Eppure verrebbe da
tuffarsi in acqua, per raggiungerli. Oramai è troppo tardi, a malapena si
distinguono le loro sagome.
Vicino,
sulla piattaforma del porto, un'ondata di gente che si raduna.
Occhieggiano
ragazze stupefatte dalla scena. Applaudono le madri, simili a spugne, muschi o
muffe, con le loro vesti nere di pipistrello.
I
padri in fila indiana, come automi, si consumano in gesti meccanici e
automatici.
Nel
frattempo l'atmosfera si fa più cupa e il mare sbeffeggia e inghiotte gli
scogli.
(Una
tempesta si scatena sul mare: la nave rolla e beccheggia; portate dal vento
precipitano valanghe d'acqua. Più in basso, dimenticati là sul fondale
brulicante, pesci che anelano alla superficie).
Mentre la nave continua il
viaggio, un uomo per caso tira fuori dalla sua borsa un binocolo e lo mostra
alla gente. Lo punta, allora, irriverente verso la nave. Silenzio. Arrivato il
mio turno, prendo il magico strumento e lo direziono verso il mare, sempre più
in fondo. Nel frattempo i confini si annullano e si perdono, finché la volta
celeste del cielo si sposa e s'immerge nelle acque marine.
Ma che vedono i miei occhi?
Che cosa vedono? Com’è possibile?
Ora sulla nave è issata una
bandiera, proprio sulla prua, dove s'incontrano l'albero maestro e il timone,
una bandiera magnifica, enorme, che sventola con allegria nel cielo, senza
ostinazione.
Il cielo già s'è fatto più
azzurro.
Una bandiera bianca, con
contorni violetti, dove s’intravede una scritta magnifica giganteggiare sulla
tela. Una scritta molto ben fatta, color oro; una scritta che per la sua
lucentezza emana d'intorno riflessi luminosi e caldi. Sì, riesco a decifrarla,
posso vederla! Che bella! Che incantevole visione.
La poesia è il suo nome!
Quasi
sognanti, i tre marinai: temerari, intelligenti, scaltri. Anche se a un primo
sguardo sembrano assenti, in realtà sono desti. Convinti, padroni delle loro
azioni e dei loro gesti, camminano e discutono tra loro, senza esitazioni.
Uno di questi, Dario, è
circospetto e sognante, illuminato da una luce naturale che proviene dall'alto.
Se ne sta come distratto e noncurante del tempo. Ha un sorriso quasi beffardo.
Dal lato opposto, è Valerio.
Nel mezzo della nave,
solitario, nei pressi del timone, il terzo degli uomini.
Sembra sia come posseduto da
un demone.
Tetragono, odia ogni sintesi
o conciliazione.
Inspiegabilmente, dopo
qualche minuto che la nave ha abbandonato il porto, anche il cielo si è
completamente liberato dal suo grigiore, lasciando trasparire negli uomini una
timida emozione.
Qui vicino, sulla terra
ferma, invece, si possono udire lunghi discorsi, che riguardano la condizione,
lo stato, o il perché del loro viaggio.
La nave nel frattempo
continua a tagliare le acque, proprio come una lama su un pezzo di carta.
Dal ponte si possono ammirare
piccole imbarcazioni, le quali, stupite dalla forza della nave, si sono
proposte di avvicinarla, per imitare il suo rapido andare.
Io ora osservo e assisto. E
penso, in silenzio, che come ci ha mostrato la nave, che salpando si è portata
dietro il grigiore del mondo, un cambiamento è pur possibile.
Una piccola e imprevedibile
sterzata, un colpo, un pugno dato alla vita. Lasciarsi uno spiraglio, una
possibilità per decidere, darsi una direzione. Proprio come quei marinai, che
hanno fatto delle loro vite un esperimento, un'avventura, un'improvvisa
emozione!
È giunto il momento, decido di
spostarmi e di isolarmi. Voglio pensare con maggiore attenzione; trovare un significato
all'esperienza appena vissuta. Dopo qualche minuto di riflessione arrivo al
punto cruciale, al nodo della questione. Seguire gli uomini è una grande
sciagura, dico. Penso solamente alla miseria, alla contingenza. Ora, la vita nel suo scorrere, in modo piatto e
superficiale, mette i brividi. Mi chiedo se l'esistenza sia davvero una
punizione, una prova, un'espiazione. E se l'anima solamente sia un rifugio per
soddisfare i bambini.
Sono rapito da questi
pensieri labirintici.
Abbandono velocemente il
porto e saluto con un cenno la nave, sempre più bella, sempre più lontana.
Starò tre mesi tra l'erba
alta del mio casolare, circondato da galli, conigli, cani, gatti, civette e
alberi da frutto. La mattina farò lunghe passeggiate e mediterò sul ritorno in
società; poi il pomeriggio studierò attentamente e con partecipazione scritti
di filosofia politica e naturale, trovandoci motivo di beatitudine
contemplativa. Infine, la sera, mi piacerà canticchiare qualche parola, e
magari, nei momenti di particolare euforia, la trascriverò su carta.
Così passati tre mesi
(temprato nel corpo e nella mente), deciderò di tornare in città.
Avendo sempre ben a mente
l'insegnamento che la visione superba della nave mi ha procurato.
Albrecht Dürer, Ritratto della madre, 1514
Daniel Filoni
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