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Dall'esperienza religiosa alla poesia.

Questa breve relazione vuol essere un piccolo omaggio a quella figura straordinaria, di estrema eleganza umana e intellettuale, che è stato Maurizio Taddei.


 Raffaello, Poesia, Stanza della Segnatura.


Oggi, 26 ottobre 2001, è trascorso un mese e mezzo dall’attentato alle Twin Towers di New York. E dovunque leggiamo sui giornali, o ascoltiamo per televisione, discorsi che considerano la guerra, lo scontro attualmente in corso, come una guerra (o scontro) di civiltà. Anche se in questa forma estrema si tratta di uno slogan più che di una prospettiva critica meditata, l’idea che si sia di fronte a uno scontro di civiltà ha un proprio fondamento. In qualche misura, un problema esiste realmente. Non è un caso se si può individuare una risposta abbastanza unitaria del mondo occidentale rispetto a quello dell’Islam, all’Islam nelle sue forme più variegate, che sono molto diverse tra loro e che, ovviamente, non si identificano soltanto coi talebani, come si è portati a pensare in questo periodo di grande tensione politica e anche emotiva. In ogni caso, un fatto è certo: il terzo Millennio sembra iniziare sotto il segno della religione, mentre il secolo che è appena terminato, il Novecento, era iniziato sotto quello di un’affermazione di segno radicalmente opposto: la fine della religione.

Quando Nietzsche affermava la morte di Dio, intendeva dire (con l'espressione “morte di Dio”) che era morto quel tipo di uomo che credeva in Dio. E la tesi nietzschiana attraversa tutta la cultura filosofica del Novecento, marcandola in modo profondo. Non si può parlare del Novecento, non si può capirlo, non se ne possono intendere i movimenti più significativi, se non si tiene conto di questa premessa. Non importa se essa corrisponda al vero, o meno. Conta, piuttosto, la diffusa percezione che la tesi di Nietzsche cogliesse un fenomeno in atto: la morte di Dio, o (almeno) che Dio stesse morendo nelle coscienze degli uomini…

Quando afferma che Dio è morto, Nietzsche dice che è morto quel tipo di uomo che pensava Dio. In tale percorso di pensiero si scorpora dal divino il "troppo umano" e si leggono con maggiore chiarezza le implicazioni antropologiche del nostro dire e pensare Dio. 
Il tema dell’abbandono di Dio – un altro dei grandi temi della cultura occidentale, specialmente dopo la seconda guerra mondiale – è intendibile in un duplice verso: di un Dio che abbandona il mondo e di un Dio che viene completamente abbandonato dall’uomo come pensiero e senso del mondo, fino a divenire non il nascosto, ma Colui che non ha, nel mondo, alcuna presenza. (C’è forse da chiedersi se nel pensiero di molti dei filosofi italiani contemporanei, che ritornano al cristianesimo per sottolineare l’abbandono del mondo da parte di Dio, non ci sia ormai un’esperienza dei mali irriducibile, non redimibile. 
Se passiamo dai campi di sterminio, l’universo concentrazionario, a quelli della ex-Jugoslavia – in cui la vita umana è materia vivente, nuda vita, governata, presa, ridotta a non essere, come ha scritto Agamben – da qui non sembra venir fuori nessuna domanda a Dio come quella di Giobbe. Nessuno di questi luoghi mantiene alcuna delle antiche categorie antropologiche del sacrificio: è puro meccanismo di uccidibilità, cioè lo sterminio, e non l’olocausto…)

Passano circa vent’anni dall’affermazione di Nietzsche, e Freud scrive un saggio famoso, "L’avvenire di un’illusione", del 1927, nel quale sostiene che l’umanità è ancora in uno stato adolescenziale e che per tale motivo continua a puntellare la propria insicurezza con la fede in un Dio-padre-onnipotente, figura dispotica e protettiva al tempo stesso. Tuttavia, man mano che avrebbe preso coscienza delle proprie capacità, e accettato l’esistenza dei propri limiti, secondo Freud l’umanità si sarebbe liberata del bisogno di una figura divina a cui ricondurre tutto. Questa sarebbe stata la fase della maturità, per il genere umano. Consapevole che pochi sono in grado di meditare sulla storia dell’umanità nella sua interezza, ben lontano, dunque, da ogni velleità profetica di dubbio gusto, Freud avvertì l’esigenza, verso la fine della propria vita, di consegnare alla cultura europea il risultato delle sue lunghe riflessioni sul “disagio della civiltà” e sul futuro stesso dell’umanità. “Quando si è vissuto a lungo nell’àmbito di una certa civiltà e ci si è spesso sforzati di scoprire quali ne fossero le origini e il percorso di sviluppo, si prova alla fine la tentazione di volgere lo sguardo nell’altra direzione e di porre la domanda circa l’ulteriore destino che attende questa civiltà e le trasformazioni che essa è destinata a subire”: inizia così L’avvenire di un’illusione, uno degli ultimi scritti di Freud, e dei più pensosi. Sono noti il pessimismo storico di Freud, la sua convinzione che ogni uomo sia, nel fondo del proprio cuore, un potenziale nemico della civiltà, la sua acuta e dolorosa sensibilità per i sacrifici richiesti agli uomini dalla società per rendere possibile una vita in comune. Ogni civiltà non può essere edificata che sulla coercizione e sulla rinunzia pulsionale, ma restano sempre vive le tendenze distruttive che operano nascostamente, che corrompono ogni generoso tentativo di migliorare la sorte degli uomini, che trasformano in illusione ogni speranza di un avvenire più sereno. La prima guerra mondiale aveva profondamente turbato Freud, che vi aveva riconosciuto l’affiorare di una crudeltà spietata e disumana, la rivelazione d’una barbarie ch’era legittimo sperare ormai scomparsa e che imperversava, invece, come ai tempi dell’orda primordiale. 
Dopo il secolo dei lumi, la rivoluzione francese e il diffondersi della cultura europea in tutto il mondo, l’uomo ‘civile’ aveva gettato la propria maschera per mostrare il volto raccapricciante di un assassino avido di sangue, ignaro d’ogni legge umana e divina, quasi innocente nel suo libero abbandonarsi agli istinti più perversi e selvaggi. “Come può, il cittadino del mondo civile”, si era domandato Freud nel 1915, “non sentirsi smarrito in un mondo che gli è divenuto straniero?” (Considerazioni attuali sulla guerra e la morte); e la risposta era stata che questa delusione non aveva, in fondo, una ragion d’essere, perché sostanzialmente essa si riduceva alla distruzione di un’illusione. La storia della civiltà, infatti, è la storia della genesi di formazioni reattive contro determinate pulsioni (essenzialmente egoistiche) che danno l’impressione di un mutamento del loro contenuto, come se l’egoismo divenisse altruismo e la crudeltà compassione. (Ché, anzi, quanto maggiore è il peso opprimente della repressione, tanto più spaventosa può essere la liberazione egli istinti così faticosamente inibiti…)

Qui risiede, secondo Freud, il valore specifico delle rappresentazioni religiose, che costituiscono, nell’inventario psichico d’una determinata società, le sue illusioni, ciò che le consente di attutire le oscure e demoniache pulsioni omicide e autodistruttive operanti al di sotto di quella superficiale vernice ‘civile’ che nasconde brividi sanguinosi e inconfessabili. Sotto questo profilo, dunque, le illusioni religiose servono a consolidare le fragili mura che difendono la minacciata cittadella d’una civiltà costruita contro gli istinti più veri e più crudeli dell’uomo, né la loro funzione si limita soltanto a questo compito. Esse rassicurano anche i singoli, in un mondo che non è fatto alla loro misura, e li consolano della miseria esistenziale cui li costringe una natura maligna e proterva, che annienta l’uomo con gelida inesorabilità. 
Ne L’avvenire di un’illusione Freud trova una definizione sottilmente e crudelmente ironica per le rappresentazioni religiose, che stigmatizza come “assiomi” o “asserzioni su fatti e su rapporti della realtà esterna (o interna) le quali ci comunicano qualcosa che non abbiamo trovato da noi e che pretendono da parte nostra un atto di fede”: “Poiché ci informano su ciò che per noi è più importante e più interessante nella vita, vengono apprezzate in modo particolare. Chi non ne sa nulla è molto ignorante; chi le ha accolte nel proprio sapere può considerarsi molto arricchito”. 
Le rappresentazioni religiose, dunque, “si presentano come dogmi”, ma “non sono precipitati dell’esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell’umanità; il segreto della loro forza è la forza di questi desideri”. E Freud spera che in un futuro più o meno lontano l’umanità giunga a sopportare le difficoltà della vita senza ricorrere alle consolazioni della religione, così come i giovani superano i turbamenti dell’adolescenza ed entrano poi nell’età matura, accettando il “principio di realtà”.

Si è parlato finora di Nietzsche e di Freud, e non a caso. Tutta la prima parte del Novecento (prima della seconda guerra mondiale), è segnata da quest'arco in cui si parla di morte di Dio e di religione come illusione. Nell’un caso e nell’altro, sembrava che il fatto religioso non avesse avvenire. La religione come residuo arcaico, destinato a scomparire come le antiche città, poco alla volta, sono coperte dalla polvere fino a diventare invisibili… A un certo punto Freud, in maniera molto suggestiva, scrive, citando un poeta tedesco: "Il cielo lasciamolo agli angeli e ai passeri". Cioè, per noi non c'è il cielo, c'è l'opera quotidiana che dobbiamo compiere, nel tentativo di migliorare questo nostro mondo infelice. Ancora in uno dei suoi ultimi saggi – un lavoro molto tecnico, e quasi aspro, che segna una svolta all’interno del pensiero psicoanalitico, Inibizione, sintomo e angoscia – termina un capitolo con la frase: "Quando il viandante canta nell'oscurità, smentisce la sua paura, ma non vede per ciò più chiaro". Una breve frase, ma illuminante. Una delle più belle di Freud, che pure è un grande scrittore. Vuol dire che la fede religiosa è come il canto del viandante nell'oscurità: conforta, ma non per questo fa vedere meglio. Inutile, allora, rivolgersi alla religione. E’ preferibile cercare di scorgere, nell’oscurità del mondo, piccoli brevi sentieri che si possano percorrere.

Peraltro, negli anni Sessanta, un noto sociologo italiano, Sabino Acquaviva, sostenne una tesi che ebbe largo successo e suscitò innumerevoli dibattiti: "L’eclissi del sacro nella civiltà industriale" (è il titolo di un volume da lui pubblicato nelle benemerite “edizioni di Comunità”, ma si cf. anche "Religione e irreligione nell’età postindustriale", del 1971). Sembrò una tesi provocatoria, e tuttavia assai vicina a cogliere la ‘realtà’ di un fenomeno in atto.

Sono passati circa quarant’anni, e la ‘paziente’, di cui si diagnosticava la fine imminente, gode (o sembra godere) di una splendida salute. Papa Wojtyla celebra la giornata mondiale della gioventù, e c’è un’enorme affluenza di giovani che vanno a Roma per partecipare all’evento. E’ un tripudio di allegria, di speranze, di gioia. E anche se alcuni intellettuali hanno avanzato le proprie riserve (talvolta fondate, meno fondate talaltra), il fenomeno è ancora negli occhi di tutti. Le immagini sono talmente vive nella memoria che sembra siano soltanto di ieri… Che cosa è successo? Negli anni Cinquanta la Francia era definita “terra di missione”. Ora quasi tutta l’Europa subisce il fascino del Papa polacco, ma soprattutto sembra cercare, nel cristianesimo, certezze e fondamenti che non sa trovare altrove. Che cosa è successo, in questi decenni ? Che cosa è cambiato ?

Se si lasciano l’Europa e il cristianesimo, ecco l’immensa realtà dell’Islam. E non solo l’Islam con la sua presenza crescente un po’ in tutti i continenti, ma anche la rinascita islamica, e soprattutto il fondamentalismo islamico, espressione certamente di una molteplicità di fenomeni, e che si manifesta in modi diversi e con varie intensità. E’ un fenomeno che percorre tutto il mondo islamico, che attraversa a sua volta i vari continenti. Che cosa succede? Come mai questo fervore? Questa rinascita? Resta il problema. Il secolo si è chiuso con un punto di arrivo molto diverso da quello di partenza. Le profezie dei grandi intellettuali, che hanno segnato l'inizio del Novecento, si trovano alla fine del secolo ad essere smentite: la religione, che si pensava dovesse morire, oggi è perfino troppo viva (almeno, in alcuni casi !).

I fondamentalismi, i ritorni alle origini, con la carica emotiva, le passioni ch’essi comportano, la partecipazione di masse, sono un grosso, enorme problema. Pongono interrogativi, suscitano timori. Talvolta, sono all’origine di spaventose tragedie. Occorre poi aggiungere un altro fenomeno molto significativo: oltre alla rinascita della Chiesa cattolica con Wojtyla, che ha portato dovunque un messaggio rinnovato, più aderente alle esigenze dei tempi, e oltre al fondamentalismo islamico, c’è stato anche un dilagare di fenomeni molto interessanti, come l'arrivo e la diffusione, qui da noi, di alcune religioni orientali o di origine orientale. Si pensi allo zen giapponese, al buddhismo tibetano, a altre forme di buddhismo più o meno vicine a quello indiano (l’originario), a Scientology, a tutto un proliferare di sette, di movimenti religiosi di varia origine, che hanno un segno diverso rispetto alla ‘proposta’ forte di Wojtyla o al fondamentalismo islamico, ma indicano comunque un diffuso bisogno di sacro.

Dietro tutte queste sette, che proliferano dovunque (su internet compaiono 50 o 60 siti buddhisti soltanto in Italia!), c'è un potente bisogno di fede. La maturazione del ‘genere umano’, nella quale credeva Freud, sembra allontanarsi sempre più. Ciascuno con la propria fede, col proprio Dio, col proprio Paradiso… C'è un autentico bisogno religioso, a monte di tutte queste molteplici e variegate manifestazioni? Un bisogno che non riesce più ad esprimersi nelle consuete forme rituali, nelle quali siamo stati educati da bambini? E, soprattutto, che cosa ha mutato le prospettive rispetto a quanto ci si aspettava avvenisse? Perché quella dell’eclissi del sacro è diventata una formula superata? In Europa, e in Italia in particolare, la riscoperta della religiosità si collega specificamente – almeno nel versante cattolico - al Concilio Vaticano II, che ha marcato un momento essenziale, una ‘scossa’ che ha determinato una serie di imprevedibili e profonde conseguenze. Ma negli stessi anni la generazione beat, negli Stati Uniti, già inseguiva alcuni miti di origine orientale (si pensi a I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac, un libro nel quale appare anche una tipica forma della poesia giapponese, lo haiku), mentre l’invasione cinese del Tibet (con la fuga del Dalai Lama e l’esilio forzato di numerosi monaci e laici tibetani) finiva col diffondere il buddhismo lamaista in Occidente molto più di quanto fosse avvenuto in tutti i secoli precedenti. C’è una concomitanza di fattori, che sarebbe semplicistico tentare di ridurre a unità. Si potrebbe dire – in una formula - che la riscoperta della religiosità è andata di pari passo con l’inizio e il progressivo sviluppo di quella che oggi si chiama globalizzazione. Man mano che andava affermandosi un certo tipo di potere, di assetto politico tendenzialmente onnivoro, ecco che quasi per contrappeso prendeva forma e consistenza qualche movimento religioso. Nella riscoperta della religiosità è molto forte l’elemento della reazione, nel senso di reagire-a (qualcosa). In questo senso, questa riscoperta ha una propria positività. Sarà pure uno spazio di sogno e di evasione, ma c’è qualcosa di più umano rispetto a certi ritmi di produzione e agli imperanti modelli consumistici.

Tuttavia, l'attuale frammentazione del sentimento religioso ha implicazioni di tutto rilievo, e porterà a una conseguenza molto semplice, ma di grande significato. Prima, se si nasceva cattolici, al 90% si moriva da cattolici (anche se la fede ormai non c’era più), e lo stesso discorso poteva farsi anche per le altre religioni. Oggi, invece, almeno in Occidente, l’individuo tende a scegliere la propria fede. E in questo nuovo trend c’è un elemento positivo (la libertà della scelta) e uno negativo (che quello della fede, o delle fedi, possa diventare una specie di supermarket, nel quale si acquistano anche prodotti di bassa qualità). C’è un proliferare di sette, piccole o grandi, prive di qualsiasi spessore; vi sono culti e fenomeni che fanno rabbrividire per la manifesta ‘inconsistenza’ del loro messaggio, delle loro forme, ecc. Un discorso è se dalla propria religione di origine si passa a un’altra che abbia una propria storia, un pensiero stratificato, una cultura (per dirla in una parola), e un altro discorso è se ci si ‘converte’ all’insegnamento di un santone da strapazzo. Oggi è molto diffuso questo pericolo.

In ogni caso, non si va (come spesso si crede e si afferma) verso un reale avvicinamento delle religioni tra loro. Il dialogo interreligioso è un fenomeno di vertice, e risponde a esigenze precise. A livello delle grandi masse, invece, l’avvicinamento delle religioni non è davvero avvertito e desiderato. Ciascuno resta legato – e probabilmente è giusto che sia così – al proprio universo di bisogni e di credenze. Anzi, più la globalizzazione incombe, più si accresce l’esigenza di conservare, nitido e intatto, il proprio ‘tesoro’ di ricordi e di attese… Che cosa resta, allora, che possa costituire oggi una reale presa di coscienza? Che sia un momento, forte, di autenticità? Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, soprattutto dopo la scoperta dei campi di sterminio nazisti, un grande intellettuale tedesco, Adorno, affermò che dopo Auschwitz, l'orrore supremo, non sarebbe più stato possibile fare poesia. Dopo Auschwitz, anche la poesia avrebbe assunto l’aspetto di una frivolezza. Occorreva il silenzio. Occorreva tacere. E tuttavia fu proprio un ebreo, romeno di lingua tedesca, i cui genitori erano morti in un campo di concentramento, fu proprio Celan a scrivere poesie che sono tra le più grandi del Novecento. L’esperienza dello sterminio vi è presente: nelle allusioni, nelle parole, nelle immagini, e soprattutto nel radicale abbandono di ogni struttura poetica consolidata. Celan rompe la sintassi, rompe la forma tradizionale del fare poetico, per giungere a una poesia del tutto nuova. 
Se Auschwitz ha dimostrato che non v’è senso nella storia, che la storia comporta sventure sempre nuove, e che non è possibile cogliere un significato nell’accumularsi delle rovine e delle morti, allora anche la poesia diventa specchio di questa orrenda scoperta. Ecco che il linguaggio di Celan si svincola da tutte le forme usuali della poesia per trasformarsi in un susseguirsi di oscuri e potenti vaticini. E’ un linguaggio completamente ‘rotto’: non c'è più sintassi, vi sono grumi di immagini, improvvise e spaventose, sono poesie brevissime, di una potenza estrema, che lascia un segno… E la sua poesia non dice la presenza, ma l'assenza di Dio.

Un grande filosofo tedesco, Gadamer, ha scritto un libro di cento pagine per spiegare una poesia di Celan: ma la poesia di Celan ha un impatto straordinario, mentre il libro di Gadamer è soltanto l’intelligente, intelligentissima costruzione di un intellettuale di alto livello. La poesia di Celan – della quale non è qui il caso di tentare un’analisi – fa percepire, con straordinaria acutezza, come la cultura occidentale abbia progressivamente perso le immagini. E’ diventata una cultura, e talvolta anche una poesia, fatta di concetti, che non sono il corrispondente, sul piano intellettuale, di ciò ch’è l’immagine sul piano sensibile. Il concetto è l’unità del molteplice, ciò che le cose hanno in comune, la loro essenza. Tramite il concetto, quindi, si perde lo specifico: si parla del cavallo, ma si perdono – dei cavalli – il colore, la velocità o la lentezza, se è snello o se è pesante. Si perde l’individuale per avere – in cambio – un universale astratto. Mentre l’immagine si concede alla fluttuazione dei significati e al loro slittamento – proprio in virtù della sua indeterminatezza – il concetto impoverisce. Non a caso, prima della seconda guerra mondiale, un genio come Artaud rifiutava un teatro fatto di parole, e mirava a un teatro come alternativa alla “ragione” che caratterizza l’Occidente. Al potenziamento razionale della nostra civiltà corrisponde un impoverimento di vita. La perfezione della verità astratta (filosoficamente: l’Uno) consente e favorisce la svalutazione del molteplice, delle singole vite, dei valori e dei sogni individuali. Nello schema occidentale di pensiero, il senso delle cose non sta nel loro molteplice e imprevedibile apparire, ma nel loro incastrarsi nell’ordine precostituito dalla ragione, che identifica ogni cosa in funzione dell’esercizio del suo potere. Ecco che la cultura occidentale si scandisce sulle opposizioni: razionale /irrazionale, bene/male, vero/falso, giusto/ingiusto, sano/malato, sensato/insensato. In tutte queste coppie oppositive, la positività del primo termine nasce dalla sua capacità di separarsi dal suo contrario come dal suo assoluto negativo.

La proposta di Artaud, come per altri versi quella di Celan, va ben oltre l’àmbito del solo teatro. E’ una proposta forte, che rifiuta l’ordine impoverente della ragione per recuperare altri livelli dell’umano. Il gratuito, la parola nascente, il gesto, il delirio, il percorso autodistruttivo… Dagli inizi del Novecento sino ai nostri giorni, la poesia può costituire quella reale presa di coscienza, che in passato era offerta dalle religioni, e che oggi le religioni – pur nella loro impetuosa avanzata, con le sue componenti anche ‘consumistiche’ – non riescono più a offrire. Il ritorno al passato non può certo cogliere il ‘senso’ di antichi messaggi, formulati in contesti radicalmente altri dal tempo ch’è nostro. Si potrebbe dire che sono false risposte, quelle che oggi offrono le religioni, sono facili, fin troppo ovvie vie d’uscita da problemi reali. E allora non basta porre domande per avere risposte – la dialettica domanda-risposta, ch’è tipica di quasi tutte le religioni – ma occorre, piuttosto, rivolgersi a chi pone domande ben sapendo che non v’è risposta possibile. E chi pone domande, pur nella consapevolezza che risponderà il silenzio, chi pone domande-senza-risposta è soltanto il poeta. E’ il tema della poesia nell’epoca del tramonto del sacro.

Si è accennato a Celan, ma Celan è poeta talmente grande che non si può pensare di esaurirlo in poche parole, in brevi e superficiali riferimenti. Anche Ingeborg Bachmann è grandissima, ma forse consente maggiormente un approccio che sia rapido. E leggerne alcuni testi permetterà di capire quanto sia diventato centrale il problema del linguaggio, nel secondo dopoguerra. 
Nella sua poesia, la Bachmann ha sempre presente la realtà politico-sociale della Germania, e il suo recente passato nazista (siamo nel 1953) : “Là dove il cielo di Germania la terra tinge di nero / l’angelo suo decapitato cerca un sepolcro / per l’odio, e ti offre la ciotola del cuore”. Dinanzi all’orrore di quel passato che si confonde col presente (“i carnefici di ieri vuotano il calice d’oro”), c’è quasi l’istintiva reazione di allontanare lo sguardo per non vedere: “Sprofondare vorrebbero i tuoi occhi”. C’è una speranza, tuttavia : “la nuvola è in cerca di parole, e colma il cratere di silenzio”. Bisogna riuscire a dire con parole nuove, occorre cercare parole nuove, parole circondate di silenzio, nate dal silenzio, parole che dicano nel loro non-dire. Sarà “mezzogiorno” solo se si riuscirà a trovare parole che dicano l’indicibile : “L’indicibile, pronunciato sottovoce, trascorre nel paese : / già è mezzogiorno”. L’indicibile, pronunciato sottovoce…

In un altro testo, del 1961, "A voi parole", la Bachmann sottolinea il pericolo che “la parola non farà che tirarsi dietro altre parole, la frase altre frasi. Così il mondo intende definitivamente imporsi, esser già detto. "Non lo dite”. Accettare il linguaggio ordinario è accettare il mondo, è accettare una certa maniera di vedere e vivere il mondo. “Non lo dite” ! Bisogna non dire il mondo come il mondo vorrebbe essere detto – come viene detto da secoli. Ogni mutamento reale passa attraverso un rinnovamento radicale del linguaggio, che vuol dire una maniera radicalmente nuova di vedere il mondo. E per vederlo in modo nuovo occorre cercare un rapporto diverso con le cose… Ecco il rifiuto – da parte della Bachmann – delle “immagini tessute nella polvere, vuoto rotolare di sillabe, parole di morte”.

Il problema del linguaggio si collega al problema del senso della storia : “La nostra divinità, la Storia, ci ha riservato un sepolcro da cui non vi è risurrezione” (Messaggio, 1953). Una concezione della vita – che ha attraversato tutto l’Ottocento – è ormai finita per sempre. Non è più possibile credere al progresso. Le conquiste della scienza e della tecnica non significano che la storia abbia un senso, e che questo senso sia nella direzione del progresso. L’esperienza della seconda guerra mondiale ha chiarito – una volta per tutte – l’impossibilità di credere al progresso. La vita degli uomini (la storia) è senza senso, irrazionale. La storia è come un sepolcro senza resurrezione. Il messaggio cristiano è ripreso per essere negato, sia dal punto di vista religioso, sia in una prospettiva laica di progresso civile. Che senso ha, allora, il pensiero? Che senso ha la poesia? Discorso ed epilogo (1956) inizia con i celebri versi : “Non varcare le nostre labbra, / parola che semini il drago”. E’ una parola che la Bachmann associa alla immagine della palude, a un’aria soffocante, a una luce piena di acidi e fermenti: “sulla palude nereggia un volo di zanzare”. Da un mondo malato, una parola malata. La Bachmann crede che la sola salvezza possibile sia in una parola “tenera di pazienza e d’impazienza”, in una parola che abbia il sapore della “semina”, una parola fatta di “benevolenza”, una parola che sia veramente nostra, “libera, chiara, bella” : “O mia parola, salvami !”. Se il problema del linguaggio si collega a quello del senso della storia, la salvezza cercata nelle parole – cioè in un nuovo modo di vedere, e dire, il mondo e la vita – rinvia anche, nella Bachmann, a un lacerante sentimento del tempo. Nel 1952, in Sorte umana, gli uomini appaiono “esiliati nel tempo, e dallo spazio scacciati, noi che voliamo nella notte, senza fondo” : “Chi sa se già non moriamo da lunghissimo tempo?”. E in Corrente (del 1957) è l’ affermazione : “Col mio assassino, il Tempo, io sono sola”. La parola nuova è un prendersi per mano, come “l’onda prende per mano l’onda”, ed è anche un modo per resistere insieme, contro le minacce del tempo e della morte.

Perché questo soffermarsi sulla poesia della Bachmann? Da essa viene fuori una semplice e grande lezione. E’ vano cercare risposte pre-confezionate in sistemi di pensiero legati a culture e tempi ormai lontani. La risposta non può mai essere trovata all’indietro, rovesciando l’asse del tempo. Va identificata sempre nel tempo storico che è proprio del singolo individuo che la cerca, che ne ha vitale bisogno. E secondo la Bachmann, nel tempo storico che è il nostro, occorre innanzi tutto ricostruirsi un linguaggio. Occorre una lingua che sia vergine, fresca e scintillante come ai primordi del mondo. Tutti coloro che riscoprono oggi – in una cultura ormai straripante di voci, di tesi, di posizioni, di antitesi, di problemi, di riflessioni, di metalinguaggi – tutti coloro che riscoprono, o credono di riscoprire, il valore delle religioni che hanno svolto il proprio ruolo nel passato, sono persone che non sanno affrontare il presente, e viverlo all’altezza delle sfide ch’esso pone.

Un ultimo riferimento potrà essere utile, a questo punto. Nel 1941 Albert Camus – una delle grandi coscienze critiche del secolo scorso – scrive Il mito di Sisifo, un saggio nel quale si fa strada, per la prima volta nell’opera del suo autore, una richiesta di valore, di razionalità, di giustizia, che ritornerà sempre più insistente ed esasperata nelle opere immediatamente successive. Questa richiesta scuote l’ordine dell’universo: il mondo perde la sua “dolce indifferenza” (sulla quale si era chiuso "Lo straniero") per diventare un enorme irrazionale. Nello stesso tempo l’universale innocenza diviene impossibile, perché essa significa fusione, mentre l’assurdo ha ormai introdotto il contrasto. Dio viene così imputato del male del mondo: se non si può trovare una ragione, bisognerà almeno scoprire un responsabile per garantire, se non la felicità, almeno una giustizia.

Tuttavia, poiché non si può pensare l’eliminazione totale del dolore, poiché l’assurdo è presentato come ontologicamente ed eticamente necessario, in quanto rappresenta il destarsi della coscienza, non rimane che una scelta: l’assassinio perpetuo di Dio o il suicidio. La prima soluzione si attua mediante il disprezzo: in tal caso, l’uomo “assurdo” (nel senso che Camus dà al termine) è colui che dileggia l’eterno concedendosi tutto, e senza limiti, al tempo, è colui che sceglie continuamente il mondo, ma in presenza di Dio: questo è l’aspetto essenziale della sua impresa.

Don Giovanni, infatti, non fugge Dio, non fugge la coscienza della finitudine, ma affronta a ogni istante il proprio destino sino alla beffa finale, mista di amarezza e di sacrilegio. Tradito ormai dal corpo, si chiude in un monastero solitario e alza le braccia, in segno di preghiera, verso un cielo ch’egli sa bene essere vuoto…

Se molti aspetti del Mito di Sisifo sono ora chiaramente datati, resta intatta la suggestione del passo finale, lì dove Camus descrive il castigo del peccatore e la sua resistenza alla condanna che lo costringe all’eterna ripetizione del sempre-identico: “Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare né sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna ammantata di notte, formano da soli un mondo. Anche la lotta verso le cime basta a riempire un cuore d’uomo. Occorre immaginare Sisifo felice”.

Questa lotta – che va combattuta ogni giorno, per tutta la vita – è la battaglia dei veri poeti, i soli che possano rischiarare, attraverso il dubbio, l’inquietudine e il dolore, le coscienze di uomini troppo pronti ad abbandonarsi a facili fedi.

Se “siamo giunti al tempo in cui gli uomini si trovano definitivamente soli sulla terra, vivono soli tra di loro, e la natura non fornisce più ad essi alcun presagio per avvertirli, come una volta, nella morte di Cesare” (Nizan, I cani da guardia), occorre scegliere definitivamente da quale parte schierarsi. Se si abbandonano le vie delle consolanti “illusioni”, forse vi sarà qualche speranza. Se ci si affiderà alla delirante speranza di palingenesi a venire, allora sarà la fine per tutto il genere umano. 

Oggi la salvezza è nelle parole dei poeti.


Francesco De Sio Lazzari

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Di Daniel Filoni Quando si parla del Cile e dei cileni, secondo il senso comune, oggi, si è soliti pensare a un paese ed a una popolazione nati prevalentemente dal seme fecondante dei conquistatori occidentali, i quali una volta preso possesso di questo territorio hanno sottomesso e schiavizzato le popolazioni native americane, influenzando e cambiando il loro modo di vivere e di pensare. Con questo articolo mi propongo, al contrario, di mostrare quanto invece la situazione sia più complessa e multiforme. Non solo è sbagliato parlare in termini unilaterali di dominio e schiavizzazione da parte dei conquistadores sugli indigeni nativi, ma, alla luce di osservazioni, intuizioni e riflessioni più attente, si potrebbe sostenere che tra i conquistatori e gli schiavi, invece, si sia creata, anche se inconsapevolmente da parte degli occidentali, una compenetrazione di culture, valori e sentimenti provenienti da entrambe le parti. Sicché il Cile oggi più che il prodotto esclusivo delle

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L’Arte tra la forma e la sostanza La riflessione estetica italiana da Croce ad Anceschi Nel 1928 Benedetto Croce dà alle stampe un’opera dal titolo Aesthetica in nuce , originariamente nata quale voce da inserire nella importante «Encyclopedia Britannica», e che riassume in un certo senso il suo pensiero circa la filosofia dell’arte. Secondo Croce, il problema attuale dell’estetica è quello di restaurare e recuperare la classicità contro l’estetica del romanticismo; recuperare, in altri termini, il momento sintetico, teorico e formale, che è quanto di più proprio dell’arte, rispetto all’elemento affettivo , predominante invece nella tradizione del Romanticismo. E si pensi ai paesaggi impetuosi di William Turner o alla malinconia che traspare dai tramonti di Caspar David Friedrich, o ancora all’italiano Francesco Hayez, autore di un quadro come Il bacio (1859), divenuto negli ultimi tempi una vera icona pop. Ma si potrebbe pensare, in letteratura, ad autori come Leopardi, B