Posto che il microcosmo dell’industria
alimentare rientri a pieno titolo nel macrocosmo dell’industria capitalistica,
una riflessione a proposito risulta necessaria per tentare di capire le modalità
attraverso le quali il fenomeno alimentare si sia sviluppato in questi ultimi
anni, prendendo sempre maggior spazio nella società italiana. Poiché non sembra
difficile, anche per il più distratto tra i cittadini, percepire la reale portata
di questo incremento, cercheremo di fare alcune osservazioni al riguardo per
meglio comprendere le dinamiche che hanno condotto a questo vertiginoso
sviluppo.
Basta volgere lo sguardo attorno a noi
che subito l’ampiezza del fenomeno attira l’attenzione. Le innumerevoli vetrine
dei supermercati testimoniano, grazie ai beni di consumo esposti sugli scaffali,
l’esponenziale accrescimento di questo settore. Ovunque è possibile trovare
prodotti che attirino la curiosità e il desiderio dei consumatori. Chiunque può
soddisfare le esigenze del proprio palato, senza essere obbligato (per il
reperimento di tali prodotti) a percorrere distanze considerevoli. A ben vedere,
si tratta di una vera e propria invasione.
Se diamo uno sguardo d’insieme al recente
passato, possiamo comprendere come questo fenomeno non si sia sviluppato repentinamente.
Tale processo non può essere considerato un fenomeno isolato dal resto del
sistema economico – come se questo incremento non si fosse verificato in
concomitanza allo sviluppo degli altri settori dell’industria – ma, al
contrario, va analizzato prendendo in considerazione l’incremento dell’intero
universo capitalistico.
Qui, per società industriale-capitalistica,
intendo ovviamente designare quella società che si costituisce in base allo
sfruttamento sistematico e programmatico dei beni di consumo, a fini commerciali.
Sicché, proprio in virtù di ciò che
accade nei nostri giorni, assistiamo a una sempre maggiore legittimazione
dell’industria alimentare all’interno di quest’universo. Il mondo della
gastronomia va assurgendo a un ruolo di primo piano rispetto agli altri settori
dell’economia.
Ciò premesso, ci si può addentrare con
maggiore facilità all’interno del cosmo dell’industria alimentare.
Qualificando i prodotti gastronomici al
livello di pure merci, che obbediscono alla legge della domanda e dell’offerta,
immettendoli nel ciclo di produzione-consumo, non solo si banalizzano e
feticizzano, ma si antepone una dimensione prettamente consumistica alla loro
naturalezza e alla loro freschezza. Il prodotto lavorato industrialmente
diventa mera merce di consumo. Di modo che questi prodotti non soltanto perdono
le loro qualità: freschezza, genuinità, bontà, ma rischiano di diventare
esiziali per la salute del nostro organismo.
È evidente come queste considerazioni
assumano un valore particolare quando si riferiscono a comportamenti tenuti
dalla popolazione in materia di acquisti. Con il miraggio del risparmio, le
catene dei supermercati spacciano prodotti di bassissima qualità a prezzi
vantaggiosi. È facile
cadere in inganno. Beni di prima necessità come uova, carne, verdura, legumi
sono venduti a prezzi stracciati. Sarebbe quantomeno auspicabile, prima di compiere
l’acquisto, informarsi sulle caratteristiche nutritive dei prodotti, nonché sulla
loro provenienza, per verificarne l’effettiva genuinità. Uova provenienti da
galline cresciute in gabbie di un metro quadro, e prive di luce, verdure
fertilizzate con prodotti chimici, carni di ogni sorta, riempiono i frigoriferi
degli italiani con cadenza quotidiana. Ma chi fa le spese di tutto questo? La
popolazione più povera e ignorante, la quale non è in grado, a causa del costo
elevato dei beni, di permettersi prodotti di qualità, e subisce più facilmente
il fascino di queste attrattive.
Gli strati sociali più disagiati sono costretto
a nutrirsi di questi prodotti di scarsa qualità e di dubbia provenienza.
Intendo il popolo qui non nell’accezione comune: il complesso degli
individui di uno stesso paese che, avendo origine, lingua, tradizioni religiose
e culturali, istituti, leggi e ordinamenti comuni, sono costituiti in
collettività etnica e nazionale, o formano comunque una nazione, ma mi riferisco solo a coloro i quali,
facendo parte del popolo, vivono una vita disagiata non potendosi permettere,
per vivere, beni di qualità elevata (È possibile però che tra qualche anno, in virtù dell’economia
capitalistica, nostro malgrado, questa definizione di popolo possa estendersi
alla popolazione tutta).
Essendo giunti al nodo della questione,
risulta opportuno soffermarsi su questo punto. Perché, dunque, la popolazione
subisce il fascino omologante della macchina capitalistica, che tutto comprime
e conforma? Il fenomeno è assai complesso e andrebbe studiato con maggiore attenzione.
Qui cercheremo di far luce sugli aspetti che maggiormente ci sembrano
indicativi. È opportuno,
anche, precisare che la teorizzazione del concetto d’industria culinaria tiene
sempre presenti le situazioni concrete e specifiche che si verificano
necessariamente nella realtà capitalistica. Certamente chi possiede gli
strumenti economici e intellettuali per decidere dei propri acquisti, non è
fagocitato all’interno di questo sistema, giacché può fare liberamente una
scelta. Molti sono invece coloro i quali rientrano a pieno titolo all’interno
di questa macchina omologante. Troppi sono gli esempi che si potrebbero
addurre, e sono sotto gli occhi di tutti. La casalinga bombardata da
innumerevoli messaggi pubblicitari, o la pensionata che non riesce ad arrivare
alla fine del mese, troveranno difficoltà quando saranno nella condizione di
decidere su che cosa acquistare. Le scelte saranno condizionate, in modo latente: l’industria
capitalistica, grazie all’espandersi della pubblicità, colpisce in modo
subliminale, condizionando le decisioni.
I più sprovveduti, i quali rientrano in
questo sistema identitario, all’interno del quale il diverso è bandito, come se
un prodotto che non rientrasse all’interno del sistema fosse un prodotto
scadente e non degno di essere acquistato, sono coloro che maggiormente vengono
bersagliati da tali dinamiche pubblicitarie.
Che cosa fare per superare questa impasse?
Io proporrei di vietare l’uso della pubblicità all’interno delle televisioni. Inoltre,
una soluzione interessante ci sembra quella promossa da “Campagna amica”.
Estendere e creare nei quartieri delle grandi città mercati gestiti dai produttori,
sicché i prodotti possano arrivare direttamente sulle tavole dei consumatori
senza subire manipolazioni industriali. In tal modo saranno assicurate la
qualità e la bontà dei prodotti, giacché saranno i venditori stessi a garantirne
la freschezza.
Più sano e più bello era il tempo in cui
si potevano reperire prodotti di altissima qualità anche nei negozi sotto le
nostre abitazioni.
Tornare alla freschezza e alla genuinità
dei prodotti sarebbe fare un passo verso la dimensione naturale: liberarla dal
peso di una realtà esiziale, che pone innanzi il profitto economico rispetto
alla salute e al benessere dei cittadini.
Parte seconda
La situazione che si è delineata in
precedenza presenta una peculiare complessità, che è opportuno osservare con
cura prima di procedere nell’analisi. Ora, ai fini del nostro intervento,
amplieremo le dimensioni della critica, così da avere davanti agli occhi un
orizzonte più vasto e completo.
Più di un trentennio è ormai trascorso
dall’avvento delle politiche neoliberiste in buona parte degli stati occidentali
a capitalismo avanzato, dalla continuazione del processo di accumulazione
indiscriminata, dal compiacimento entusiastico per tale crescita; sicché nulla,
oggi, nonostante lo stupore di uno sparuto gruppo d’intellettuali, sembra più
naturale e necessario del vigente sistema economico.
La crescita infinita, lo sviluppo
illimitato e l’iperconsumo sono i fari che guidano l’azione dei cosmocrati, i
quali, in virtù del loro potere,
detengono il controllo del sistema economico internazionale, imponendo diktat
alla politica degli stati sovrani. Proprio questa disparità, questa
subordinazione della politica all’economia non sembra pesare alle classi ricche,
giacché sono soltanto quelle (classi) povere, a subire le conseguenze nefaste
di tali dinamiche.
La devastazione consapevole delle risorse
naturali, l’incremento sproporzionato del debito dei Paesi del terzo mondo, il
problema della fame e della sottoalimentazione non vengono da costoro (classi
alte) nemmeno in minima parte considerati, purché, all’interno degli stati, ci
si volga alla crescita economica, si vada avanti e si produca
indiscriminatamente benessere e ricchezza.
E in tutto questo la crisi finanziaria
presente, che attanaglia le famiglie e le persone con reddito medio-basso. Il
tracollo del sistema bancario, la distruzione dell’economia reale, la mancanza
di controlli istituzionali (deregolamentazione) e la violazione delle regole
vengono assunti come processi naturali e irreversibili dell’economia mondiale.
Come se il neoliberismo fosse il migliore
dei mondi possibili e l’unica soluzione cui l’uomo occidentale possa aggrapparsi.
A ben vedere, dati alla mano, noi
pensiamo al contrario che il modello neoliberale sia un sistema economico pieno
di falle e contraddizioni. Perché allora ci sono tante persone che sono convinte
che il neoliberismo sia l’unica scelta possibile?
Forse perché questo modello ha
rappresentato una vittoria per le classi alte, rinnovando e potenziando ancora
il potere dei ceti dominanti, creando inoltre le condizioni per la nascita di
una nuova classe capitalista.
Dopo aver dato uno sguardo d’insieme al
sistema economico vigente, ci soffermeremo su dati esemplari, che ci
permetteranno di addentrarci nel cosmo dell’industria alimentare.
Cominciamo con il ricordare informazioni
utili che gli economisti sembrano non considerare. Gli americani e i canadesi
con il 5% della popolazione mondiale, a causa di un consumo ipertrofico,
divorano il 31% delle risorse mondiali. L’Europa occidentale con il 6,4% della
popolazione mondiale detiene il 29% dei consumi. Queste cifre iperboliche
sembrano quantomeno sproporzionate se si prende in considerazione l’Africa
subsahariana, che con l’11% della popolazione rosicchia appena l’1,2% delle
risorse disponibili sulla Terra (Dati Ocse) .
In verità, la grandezza e la fortuna dell’Occidente
si sono fondate e si fondano su l’esproprio di ricchezze che le altre
popolazioni, come nella fattispecie quelle africane, non sono state in grado,
anche a causa del debito contratto con i Paesi occidentali, con l’Fmi e con la
Banca mondiale (almeno fino a oggi), di sfruttare.
Pertanto non va assolutamente dimenticato
quale bilancio nasconde l’industria alimentare del nostro tempo. L’abbattimento
dei costi dei prodotti alimentari, a discapito della genuinità e della bontà dei
prodotti, è il risultato dell’impoverimento e della mancanza di qualità di
questi ultimi.
La contaminazione dell’acqua dai
pesticidi e dai serbanti; il terreno avvelenato; l’erosione e la
desertificazione dei suoli; il disseccamento delle falde; l’uccisione della
fauna selvatica; la perdita della biodiversità; le malattie varie e la
diffusione del cancro tra i lavoratori delle campagne del mondo sono stati i
prezzi che abbiamo dovuto pagare per l’abbattimento dei costi. Ma tutto questo
dispiegamento di forze è valso a migliorare i prodotti venduti nei supermercati
delle città occidentali?
Forse la logica che ha causato l’avanzata
di queste dinamiche è dettata da motivazioni diverse da quelle riguardanti la
qualità e genuinità dei prodotti?
Sarebbe opportuno soffermarsi su queste
domande, per capire a chi ha giovato l’abbattimento dei costi e l’inaridimento
degli alimenti. Sono le imprese, di certo, a trarre maggiore beneficio da queste
dinamiche.
Per dare forza a un consumo ipertrofico
le imprese investono cospicue somme del loro bilancio in pubblicità. Gli
aeroporti, le stazioni ferroviarie, persino le strade sono invase da immagini
pubblicitarie. Al grido entusiastico: “Compri ora, paghi domani!” torme sempre
più numerose di fedeli aderiscono a questa nuova religione.
Com’è intuibile, la televisione ha avuto
un ruolo fondamentale in questa conversione; grazie a questa le imprese sono
riuscite a penetrare nell’immaginario comune. Per usare le parole suggestive di
Piero Bevilacqua:
Il capitalismo è entrato in un’epoca di distruttività
radicale. Ci trascina in un vortice che coinvolge le strutture della società,
decompone lo Stato, cannibalizza gli strumenti della rappresentazione politica
e della democrazia, desertifica il senso della vita. Al tempo stesso va
divorando, fino ai limiti del collasso, risorse naturali sul cui sfruttamento
ha fondato i propri trionfi economici
(Piero Bevilacqua, Il Grande saccheggio, Laterza).
Che fare per uscire da questa impasse?
Crearsi gli strumenti critici, così da
non essere del tutto fagocitati dall’industria capitalistica.
Lottare con ogni mezzo affinché il
modello economico neoliberista cessi di essere il sistema economico vigente
degli Sati occidentali.
Queste ci sembrano due strade
percorribili, per uscire dal pantano economico che ci circonda e ci umilia.
Daniel Filoni
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