La barbarie cosmocratica
avanza a passi da gigante.
È da questa nuova realtà che
nasce l’impero della vergogna.
Jean Ziegler
PREMESSA
Dopo le riflessioni sul valore o il
danno della storia fatte dal giovane Nietzsche, e' interessante valutare come queste abbiano dato vita ad un nuovo modo di interpretare la storia. Come scrive Nietzsche, nel 1874, nella sua, per certi tratti piu’ interessante, Inattuale, l'uomo per sopperire al peso del passato e' costretto a tracciare una linea divisoria, che lo separa dell' insopportabile peso di cio' che e' trascorso. Pertanto, nel far cio', l' uomo, anche se perde la possibilita' di essere felice, puo' tuttavia delineare un orizzonte che gli permetta quanto meno di vivere. E proprio da quell' orizzonte, per lo storico, e' possibile gettare uno sguardo nel passato e prospettare dal presente una linea divisoria che delinei il compiersi positivo degli eventi.
Proprio perche' l' Ottocento e' il secolo della Storia, Nietzsche, nella seconda Inattuale, cerca di denunciare gli errori di tutti quei studiosi che si affidano, senza considerare il presente, alla ricerca storiografica, per ridare valore ai fatti e alla loro interpretazione.
Ho iniziato questo intervento ricordando alcune riflessioni giovanili di Nietzsche, perché, ai fini di quest’articolo, (e anche per l’indagine storiografica tout court), ritengo importante porre l’accento sul ruolo che questa nuova metodologia assume nell’esame del passato.
Giacché la storia, come tutte le scienze naturali e umane, nel suo
dispiegarsi nella linea del tempo, non è in grado di restituire verità
oggettive, considerare le riflessioni che il giovane Nietzsche compie al riguardo della storia, puo' essere utile per considerare il presente da una prospettiva diversa da quella che vuole restituirci il sistema economico/politico vigente.
Qui entra in gioco l' oggettivita' delle scienze storiche. Ma nonostante questo limite (questo è il punto centrale del discorso), non va sottovalutata la portata del valore che la storia ha per la vita.
Le scienze storiche, infatti, hanno il compito etico di restituire non verità incontrovertibili ma prospettive sullo “es war”, aprendo così lo spazio a una tra le tante possibili interpretazioni umane intorno ai fatti accaduti.
Qui entra in gioco l' oggettivita' delle scienze storiche. Ma nonostante questo limite (questo è il punto centrale del discorso), non va sottovalutata la portata del valore che la storia ha per la vita.
Le scienze storiche, infatti, hanno il compito etico di restituire non verità incontrovertibili ma prospettive sullo “es war”, aprendo così lo spazio a una tra le tante possibili interpretazioni umane intorno ai fatti accaduti.
Esemplari sono, al riguardo, le parole del
giovane Nietzsche: “solo con la massima
forza del presente voi potete interpretare il passato”.
Non è pertanto intenzione, da parte di chi scrive, stendere un
velo di scetticismo e di relativismo sul metodo delle scienze storiche. Un’ipotesi è comunque una realtà, anche se falsa,
e non è una mera astrazione.Ciò che vorrei rilevare, in questa sede, infatti,
è la loro discutibilità e non la loro esistenza.
Il flusso dei fenomeni storici manifesta
una pluralità di dimensioni e dinamiche. E tentare una spiegazione univoca e omnicomprensiva
riguardo fenomeni complessi e poliformi, è un errore di valutazione e giudizio.
La storia manifesta la propria bellezza
nella sua capacità di rendere comprensibile al pensiero critico il legame tra
una costellazione di cause, costituite in un impianto logico-processuale (scire per causam), che genera eventi. In
questo senso, la storia si presenta come una grande “eziologia”, che, in virtù
di un metodo induttivo, ricostruisce processi e confronta dati empirici, al
fine di costituire un impianto teorico in grado di reggere e appurare la
veridicità dell’esame intorno al materiale preso in considerazione.
I compiti fondamentali della storia, di
là dalla pretesa oggettività del suo metodo, sono: promuovere la cultura delle possibilità sociali, e rendere
manifesta la prospettiva del trascendimento
del presente. Soltanto in questo modo la storia ci mette nelle condizioni
di comprendere che il mondo contemporaneo, dominato dal capitalismo, attraverso
la logica del principio d’identità, non è il solo e neanche il migliore tra i
mondi possibili, poiché, (proprio per mezzo dell’indagine storica) comprendiamo
che, in passato ci sono state altre organizzazioni statali, e che altre ancora
ce ne saranno nel futuro.
La storia è un grande collante di senso e
memoria.
Ciò premesso, dopo aver accennato al
metodo e al fine della storia, si farà luce sulle cause e sulle modalità
attraverso le quali l’orizzonte neoliberale si è dispiegato – giacché questo è
il tema centrale dell’ articolo –, in una realtà dominata dal Welfare State,
come modello economico vincente negli ultimi trent’anni del Novecento.
Il termine stato custodisce concetti
complessi e ambivalenti. Poche altre categorie possiedono una valenza così
ampia ed elevata. Tuttavia, nonostante le complicazioni e le diversificazioni che
esso può assumere, lo stato è una formazione storica.
Grazie all’applicazione delle teorie
dell’economista inglese John Maynard Keynes, lo stato assunse, all’indomani dei
Conflitti mondiali e della Grande Depressione del 1929, un ruolo centrale nella
gestione delle politiche, nel mantenimento e nell’accrescimento dello sviluppo
economico. Sicché, nella scia di queste politiche, tra il 1945 e il 1973,
l’Occidente ha conosciuto la fase di espansione economica più lunga e spettacolare
di tutta la sua storia.
Ma la forma statale vigente conosce una
declinazione specifica e prevalente: lo stato assistenziale o Welfare state. È esattamente quella forma di assistenza pubblica che
si sviluppa attorno agli anni Quaranta, nei paesi a capitalismo avanzato.
La peculiarità di quest’organizzazione
statale comporta il dovere, da parte dello stato, di adempiere e di realizzare
compiti economico-politici ben definiti. Esso non si pone soltanto come il custode
del potere, il raccoglitore fiscale di denaro, ma, anche e soprattutto, come il
centro di un efficiente modo di produzione e distribuzione della ricchezza. Alla luce del benessere generale, esso ha l’onere di attenuare
e regolare i conflitti tra le classi sociali. Infatti, al Welfare è affidato il
compito fondamentale della piena occupazione, della crescita economica e del
benessere dei cittadini, con l’impegno di agire liberamente accanto ai
meccanismi di mercato, se necessario, addirittura, sostituendosi a essi, per
poterne controllare il corretto funzionamento. Inoltre, lo stato, in quest’accezione,
per garantire il benessere, deve intervenire liberamente nella politica
industriale, nel definire i livelli del salario sociale, con la creazione,
appunto, di vari sistemi di welfare (sanità, istruzione, ecc.). Le iniziative
di uno stato interventista servono a promuovere un’economia sociale e morale.
Ci si riferisce, dunque, a questa forma
di organizzazione economico-politica con l’espressione embedded liberalism, che indica come intorno ai processi di mercato
e alle attività economiche esista un complesso di regole e restrizioni volte a
indirizzare e limitare la strategia economica industriale.
Ma gli anni Settanta segnarono, malgrado
un trentennio di mirabile crescita economica, l’inevitabile cambiamento di
rotta. Quali sono state le cause che hanno condotto all’avvento, progressivo,
delle politiche economiche neoliberali? Perché il modello di organizzazione
statale, nato come strumento di distribuzione di ricchezza e giustizia sociale,
fu sostituito dall’avanzare irruento ed efferato del neoliberismo?
Erano evidenti i segni di una nuova crisi
che riguardava l’accumulazione di capitale. Ovunque crescevano in modo
esponenziale l’inflazione e la disoccupazione, che avviarono una fase globale
di stagnazione economica, che si protrasse per buona parte degli anni Settanta.
Diversi stati riscontrarono problemi fiscali e, per evitare rovinosi tracolli,
furono costretti a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale, il quale
non si fece scrupoli nel chiedere importanti riforme economiche in cambio di
moneta liquida. Rilevante, al riguardo, è il caso del Regno Unito. Come e perché
il neoliberismo sia diventato l’unica soluzione al sopraggiungere di queste
calamità è il problema su cui si dovrebbe far luce.
Nonostante i partiti comunisti e
socialisti guadagnassero terreno, la risposta delle classi alte a questa
escalation non si fece attendere.
È possibile quindi
interpretare il neoliberalismo come un progetto politico per ristabilire il potere
delle classi alte tramite la deregolamentazione dell’economia e l’accumulo
indiscriminato e selvaggio di capitale.
Se questo processo è stato
uno strumento per la restaurazione del potere di classe, è interessante capire
da quali forze è stato generato.
Negli anni Ottanta, in
particolar modo due paesi hanno declassato e sostituito le politiche dello
stato sociale, in conformità a un nuovo credo teorico, riassunto con il termine
deregulation. Con la presidenza,
negli Stati Uniti, di Ronald Reagan e con l’elezione a capo del governo inglese
di Margaret Thatcher, sono stati posti seri limiti all’intervento pubblico in
economia. Secondo i fautori del neoliberismo, l’intervento dello stato nelle
politiche economiche è esiziale poiché finisce con il richiedere una tassazione
elevata, accresce il peso e i costi della burocrazia, aumenta l’inflazione e
l’alto costo del denaro, interferisce con il mercato e ne altera le regole: in
una parola scoraggia l’attività delle imprese.
Secondo la teoria, lo stato
neoliberista deve favorire il diritto individuale alla proprietà privata, il
primato della legalità, l’istituzione di mercati in grado di funzionare liberamente
e il libero scambio. La privatizzazione e la deregolamentazione, combinate con
la competizione, accrescono l’efficienza e la produttività ed eliminano la
lentezza della burocrazia.
Questo principio della
privatizzazione trova piena realizzazione nei campi dell’assistenza sociale,
dell’istruzione e persino nella previdenza sociale, come testimoniano i casi
esemplari del Cile e della Slovacchia. Infine, i neoliberisti avversano le
istituzioni democratiche, giacché, a parer loro, queste ostacolerebbero il
libero flusso di capitali nei mercati internazionali, quindi preferiscono
scavalcarle, per affidarsi invece alla mano invisibile del mercato.
Come possiamo definire, in
teoria, il neoliberismo?Il neoliberismo è una pratica
di politica economica secondo la quale il benessere degli individui può essere
perseguito liberando le risorse e le capacità imprenditoriali degli uomini
all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di
proprietà privata, liberi mercati e libero scambio, in cui il ruolo dello stato
è limitato o impedito. Il Fondo Monetario
internazionale, la Banca mondiale e l’organizzazione mondiale per il commercio ne
regolano la finanza e gli scambi globali.Questo tipo di politiche
conobbe un incremento mondiale attorno agli anni Ottanta, estendendosi a molti
stati: il Messico, l’Argentina, la Corea del sud, la Russia, la Svezia e la
Cina (seppur con caratteristiche peculiari) sono solo alcune tra le nazioni che
ne subirono il fascino e ne furono investite. Molti tra questi stati, con
l’eccezione di poche nazioni asiatiche, hanno riscontrato danni sociali e
politici irreparabili.
Quali sono le conseguenze
sociali prodotte da quest’organizzazione politico-economica?
Gli stati neoliberisti danno
prova di un grandissimo talento nel mascherare con parole nobilitanti come
libertà, indipendenza, possibilità di decisione e diritti sociali, ciò che in
realtà sta avvenendo: la restaurazione del semplice e puro potere di classe.
Non occorre essere marxisti per rendersi conto della reale portata distruttiva di
queste politiche.
La disuguaglianza sociale;
l’altissimo divario che intercorre tra le classi ricche e quelle povere;
l’impoverimento delle nazioni; il primato assoluto dell’economia sulla
politica; l’incremento vertiginoso della disoccupazione; la flessibilità del
lavoro; la finanziarizzazione e la monetarizzazione selvaggia dell’economia;
l’aumento vertiginoso del debito contratto dai paesi del terzo mondo, a causa
di tassi d’interesse spropositati; l’aumento, nei paesi poveri, delle morti per
malnutrizione; la distruzione sistematica delle risorse naturali, al fine di
incrementare scriteriatamente la produzione di capitali e ricchezza, destinati
a imprese e individui già ricchi sono solo alcune delle cause e dei mali che
stanno distruggendo il nostro mondo.
E l’Italia in tutto questo?
Con una disoccupazione
giovanile che tocca oramai la soglia del 40%; l’impoverimento delle istituzioni
nazionali, in balia delle politiche economiche eurocratiche e delle sirene
provenienti dagli Stati Uniti; con un debito pubblico che aumenta
vertiginosamente ogni giorno e che ha già toccato cifre da capogiro, l’Italia
si accinge all’adempimento di un inesorabile e tragico destino.
La realtà dei fatti ci impone
l’obbligo e non solo il desiderio di un repentino cambiamento di rotta.
L’ondata di povertà che si sta abbattendo anche sui paesi cosiddetti a
capitalismo avanzato, con la conseguente distruzione delle classi medio-basse,
ci invita a riflettere.
Certamente, bisognerebbe
essere ciechi e privi di senso della realtà per auspicare un’imminente
socializzazione e collettivizzazione dei mezzi di produzione, quantomeno però,
per invertire ed evitare il peggioramento di questa situazione politico-economica
che stiamo vivendo, sarebbe opportuno un ritorno alle politiche sociali del
Welfare State.
Daniel Filoni
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