L’Arte tra la forma e la sostanza
La riflessione estetica italiana da Croce ad Anceschi
Nel 1928 Benedetto Croce dà alle stampe
un’opera dal titolo Aesthetica in nuce,
originariamente nata quale voce da inserire nella importante «Encyclopedia
Britannica», e che riassume in un certo senso il suo pensiero circa la
filosofia dell’arte. Secondo Croce, il problema attuale dell’estetica è quello
di restaurare e recuperare la classicità
contro l’estetica del romanticismo; recuperare, in altri termini, il momento
sintetico, teorico e formale, che è quanto di più proprio dell’arte, rispetto
all’elemento affettivo, predominante
invece nella tradizione del Romanticismo. E si pensi ai paesaggi impetuosi di
William Turner o alla malinconia che traspare dai tramonti di Caspar David
Friedrich, o ancora all’italiano Francesco Hayez, autore di un quadro come Il bacio (1859), divenuto negli ultimi
tempi una vera icona pop. Ma si potrebbe pensare, in letteratura, ad autori
come Leopardi, Byron, Keats, Shelley, Novalis, von Kleist. Artisti e poeti che
hanno visto nella Natura una forza così potente da rendere vano ogni sforzo,
ogni parola, ogni azione umana, perché nulla può l’uomo rispetto alla volontà
cieca del Mondo, e nulla può esprimere che possa almeno in parte restituire la
bellezza e il mistero delle cose, a tal punto che proprio Leopardi confesserà
nell’idillio A Silvia: «Lingua mortal
non dice / quel ch’io sentiva in seno». Tra il bello e il sublime, offerti dallo
spettacolo della natura, l’uomo resta dunque immobile, e non può che
contemplare silente, con occhi attoniti e lacrimosi, l’inveramento dell’Essere.
All’idea romantica, «distruttiva» e
«antiartistica», secondo cui l’arte farebbe emergere la verità della vita,
viene dunque contrapposta da Croce l’idea secondo cui l’arte si identifica con
la bellezza, cioè con la verità
armonizzata.
Il tentativo di restaurare la classicità
era già stato operato, comunque, da Croce negli anni precedenti. Nel 1902,
infatti, il filosofo pubblicava l’Estetica
come scienza dell’espressione e linguistica generale, in cui offriva quel
«sistema» che sarà poi ripresentato e ulteriormente definito nelle opere
successive come la Logica come scienza
dell’oggetto puro del 1905 e Filosofia
della pratica del 1909. A queste opere programmatiche seguono lavori come Problemi di estetica (1910), Breviario di estetica (1912), La poesia (1936) e la già ricordata Aesthetica in nuce. In queste ultime
opere, Benedetto Croce precisa e definisce i punti fondamentali della tesi da
cui era partito. Da tutto ciò emerge il carattere dell’estetica crociana, e
cioè quello di essere una scienza il cui oggetto di indagine risulta essere
differente da tutte le altre forme di sapere: l’attività “intuitiva”, ben
distinta dalla “logica” per il fatto di essere conoscenza non già
dell’universale ma del particolare;
ma anche distinta dalla economia e dalla morale, per non appartenere alla sfera
pratica. Essa farebbe, secondo Croce, tutt’uno con l’espressione, dal momento che può essere espresso solo ciò che è
stato simultaneamente intuìto. È poca cosa, scrive il filosofo idealista, il
mondo che intuiamo ordinariamente; null’altro che un insieme di luci e colori,
a tal punto che se volessimo raffigurarlo in qualche modo, ne verrebbe fuori
«un guazzabuglio». Ma solo a seguito della crescente concentrazione spirituale
l’espressione può farsi per così dire più intensa e padroneggiare dunque il suo
contenuto, per poi offrirlo alla chiara contemplazione. Il punto massimo di
questo processo, secondo Croce, è l’arte,
che rappresenterebbe la perfetta coincidenza e unione di intuizione ed
espressione. L’arte è allora «intuizione pura»,
dimensione in cui viene annullata ogni possibile differenza tra l’immagine e il
senso, tra il segno e il significato. Da qui emergerebbe, secondo il filosofo,
il carattere personale della
creazione artistica: «L’intuizione pura, non producendo concetti, non può
rappresentare se non la volontà nelle sue manifestazioni, ossia non può
rappresentare altro che stati d’animo. E gli stati d’animo sono la
passionalità, il sentimento, la personalità, che si trovano in ogni arte e ne
determinano il carattere lirico»[1], scrive Croce nel Breviario di estetica. La liricità
scaturirebbe dal fatto che l’arte poggia proprio sul complesso dagli stati
d’animo; la personalità umana rappresenta per Croce non a caso l’origine di
ogni poesia. Ma va sottolineato il fatto che l’intuizione pura non ha nulla di “spirituale”,
al contrario: essa si cala nel mondo concretamente.
Ed è per questo allora che «un’immagine non espressa, che non sia parola,
canto, disegno, pittura, scultura, architettura, parola per lo meno mormorata
tra sé e sé, canto per lo meno risonante nel proprio petto, disegno e colore
che si veda in fantasia e colorisca di sé tutta l’anima e l’organismo, è cosa
inesistente»[2].
Alla luce di tutto questo, Croce può così prendere le distanza da tutti quegli idola del tempo, tra cui la teoria degli
stili, e dalla tendenza da parte di una certa storiografia artistica di
attribuire etichette all’arte fissando delle periodizzazioni. L’arte, però,
osserva il filosofo, non può che essere una, perché essa non è storia, e
andrebbe colta alla sua fonte, dove si rivela essere disciplina e purificazione
del sentimento, bellezza e armonia[3].
Differente visione dell’arte avrà
Galvano Della Volpe, che – a differenza della dottrina estetica crociana – tenderà
a focalizzare l’attenzione sempre più sulla razionalità e sulla storicità dell’esperienza artistica e ad
apprezzare addirittura i fenomeni dell’avanguardia primonovecentesca anche
quando questi potevano apparire ideologicamente contrari o in disaccordo col
suo modo di intendere il mondo. Della Volpe sarà infatti un fervente
sostenitore del marxismo, ma ciò non gli impedirà di osservare con interesse e
curiosità anche correnti artistiche come il futurismo, che fu – come si sa –
l’equivalente estetico dell’ideologia fascista.
Nel 1940 il filosofo scriverà la Critica dei principi logici, cui farà
seguito, l’anno dopo, un’opera come Crisi
critica dell’estetica romantica; lavori dove Della Volpe metterà a punto la
sua personale dottrina estetica. Ma sarà la Critica
del gusto, del 1960, il suo capolavoro estetico. L’arte, per Della Volpe, è
conoscenza del mondo, conoscenza storica
della realtà e non può dunque essere intesa crocianamente come ciò che sta al
di là del divenire della storia; «è conoscenza della realtà in quanto il
materiale di cui dispone non è inerte ma è costituito da significati che
storicamente vanno via via sedimentandosi in esso: ciò che rende questo
materiale non solo adatto a riflettere la storia, ma anche a interrogarla, a
coglierne il divenire, a mostrarne la dinamica interna»[4]. L’arte svelerebbe il
volto nascosto della realtà, quello che non appare al sapere scientifico o
comunque filosofico, perché l’arte coglierebbe i nessi sussistenti tra i
diversi significati del mondo. E tutto questo assume il valore, nella
riflessione estetica dellavolpiana, di una «organicità connotativa», dal
momento che il linguaggio poetico, così come quello pittorico, musicale
eccetera non sono altro che lo stesso linguaggio comune, con la sola differenza però che essi avrebbero una funzione
connotativa, cioè sarebbero in altri
termini autoreferenziali: non dicono
della realtà, non hanno la funzione di denotare
alcunché, ma sono essi stessi la
realtà.
Stando così le cose, non avrebbe più
senso allora la distinzione operata da Benedetto Croce, quella cioè tra l’arte
e le altre forme dello spirito, poiché queste ultime non sarebbero che i
contenuti stessi dell’arte; ma non avrebbe senso invero neppure la concezione
estetica espressa da Lucàcs nella nozione “leniniana” di «Widerspiegelungstheorie»[5] («teoria del
rispecchiamento»), secondo cui l’arte sarebbe una forma di oggettivazione e un
momento mimetico del reale. Tale teoria, secondo Lucàcs, deve avvalersi della
categoria della «particolarità» perché l’arte è superamento dell’universalità,
cioè è superamento di tutti quei concetti generali che risultano essere scissi
dalla realtà del vivere quotidiano[6].
Anche Antonio Banfi svilupperà, come
Della Volpe, una riflessione estetica dal sapore anticrociano, muovendo egli da
una cultura filosofica di matrice fenomenologica appresa durante gli anni
trascorsi in Germania, quando fu allievo di Georg Simmel. Contro ogni visione
totalizzante e unitaria del mondo, Banfi concepirà una fenomenologia che lui
stesso definirà «razionalismo critico», capace di tenere sempre vivo il
riconoscimento della pluralità e molteplicità di cui è costituita la stoffa del
reale. Al di là dei sistemi entro i quali voler organizzare il mondo nel suo
complesso, Banfi fa leva sulla ragione,
quale strumento indispensabile per interrogare la realtà in modo da offrire
nuovi orizzonti di senso e direzioni alternative alle più tradizionali e
onnicomprensive dottrine filosofiche.
È in base a queste premesse che Banfi
edificherà poi la sua riflessione sull’arte: secondo il suo modo di intendere,
l’arte non ha una vera e propria natura, perché semmai la sua natura è quella
di essere aperta alla varietà delle sue molteplici manifestazioni ed
espressioni. E si capisce allora come Banfi non fosse – in accordo con Della
Volpe – così contrario alle avanguardie storiche, perché proprio
nell’esperienza artistica rappresentata dalle avanguardie è possibile osservare
la varietà espressiva dell’arte. Ogni fenomeno artistico, per Banfi, si
concentra intorno a particolari valori, e di conseguenza l’arte può essere
giudicata anche dal punto di vista assiologico,
in quanto portatrice di istanze sociali e morali. Ogni opera d’arte può essere
compresa allora soltanto se ricondotta entro il suo orizzonte di senso, il
quale non può in alcun modo trascendere il particolare momento storico entro
cui l’opera stessa si inserisce. Non c’è più metafisica dell’arte, per il
filosofo, perché non è più possibile chiedersi che cosa è l’arte, essendo essa sempre e comunque espressione di una precisa
realtà storica e contingente.
Dalla speculazione estetica banfiana
prenderà le mosse quella di Luciano Anceschi; autore di una significativa opera
come Autonomia ed eteronomia dell’Arte
del 1936. Tutta la riflessione anceschiana ruoterà intorno alla nozione di
«istituzione», entro la quale il filosofo ricondurrà motivi di derivazione
fenomenologica. Secondo Anceschi, l’arte avrebbe una sua legalità interna, tale
che la distinguerebbe da tutte le altre attività umane; anche se comunque essa
sarebbe inserita nella fitta trama dell’esistenza storica, al punto da
rifletterne i bisogni pratici e teoretici. È proprio in questa dialettica, cioè
quella tra autonomia ed eteronomia dell’arte, che trova legittimazione la
nozione di «istituzione», perché per Anceschi essa sarebbe quel complesso organico
o sistema di norme riguardanti il fare letterario. In
altri termini, l’istituzione starebbe a indicare la concezione stilistica di
un’epoca e che quell’epoca investe, sino a scollarsi via via da essa e proporsi
come «modello ideale»[7], dal Rinascimento al
Barocco, dal Romanticismo al Neoclassicismo sino alle avanguardie. L’artista
dunque è colui che si inserisce in una tradizione,
entrando in dialogo con essa sino al punto di trasfigurarne le forme e i
modelli. L’Arte dunque è profondamente radicata nell’accadere della storia, per
Anceschi, e non sta più a rappresentare qualcosa di metastorico, così come invece voleva Croce nella sua Estetica agli inizi del secolo.
Michele
Lasala
[1] Cfr. B. Croce, Breviario di estetica e
Aesthetica in nuce, a cura di G.
Galasso, Adelphi, Milano 1990.
[2] Ibidem.
[3] Cfr. S. Givone, Storia dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 2003.
[4] Cfr. ibidem,
p. 148.
[5] Cfr. G. Lucàcs, Prolegomeni a un'estetica marxista: sulla categoria delle particolarità,
Editori Riuniti, Roma 1957.
[6] Cfr. E. Franzini, M, Mazzocut-Mis, Breve storia dell’estetica, Bruno
Mondadori, Milano 2003.
[7] Cfr. S. Givone, Op. cit.
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