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L'artista e la produzione di opere d´arte. A proposito di Harold Rosemberg e di Donald Judd.

Di Daniel Filoni



 Donald Judd nel suo studio newyorkese.

Prima di iniziare queste riflessioni, desidero considerare alcuni motivi che mi hanno spinto a riflettere su questi argomenti, dal momento che, a causa delle teorie e delle prospettive avanzate negli ultimi anni, la questione risulta complessa.

Dappertutto, sulla scia dell´irrompente moda neo-avanguardistica, già dai primi anni del Novecento, il ruolo dell´artista è stato declassato, pertanto una riflessione al riguardo risulta necessaria, per cercare di trovare una soluzione alternativa all´impasse radicale di questa prospettiva. Cercare di attenuare questa posizione di subordinazione e di declassamento dell´artista, infatti, sembra il compito che oggi deve proporsi la riflessione estetica se vuole tentare di salvare l´universo dell´arte dall´esclusivo predominio degli oggetti e delle cose.
Però questa prospettiva oggettuale non e´l´unica che è apparsa nella seconda metà del Novecento.
É come se negli ultimi anni la storia dell´arte figurativa si fosse mossa su l´asse di due parallele. Da una parte, i fautori della prospettiva “psicologista”, i quali sono propensi a evidenziare il momento del flusso di coscienza dell'artista come elemento determinante della produzione, dall´altra, invece, coloro i quali propendono per la soluzione radicale del gesto riflessivo e provocatorio, eliminando del tutto il momento del fare.

Cercare di trovare, con l´aiuto delle riflessioni di filosofi dello spessore di Danto e Adorno, una lettura alternativa a questo binomio ermeneutico, che sopra ho citato,  è ciò che in queste brevi pagine mi sono proposto di fare.

Contrariamente al primo Novecento, quando si credeva che gli artisti fossero portatori di verita´assolute, – mentre le avanguardie si apprestavano a fare la loro comparsa nell´universo dell´arte  – oggi, anche per merito delle riflessioni del critico d´arte e filosofo Arthur Danto, teorizzate in Arte e significato del 2000, sembra prevalere  invece  un pluralismo circa la questione della verità manifestata dalle opere d´arte. Pertanto, a dispetto della pretesa dei movimenti di avanguardia di essere i soli custodi della verità artistica, nessuna tecnica compositiva risulta prevalere sulle altre, perche´il significato e il valore delle opere sembrano rimandare ad una dimensione extra-sensibile ( alla dimensione del gesto, del segno e della spiritualizzazione) che trascende quella estetica, relativa alle differenti tecniche artistiche.

Non soltanto l´arte contemporanea, sempre secondo Danto, non è più in grado, a partire da Duchamp, di definire il proprio statuto, – in quanto divenuta cosa tra le cose – ma a decidere della sua appartenenza al mondo artistico si occuperà , invece, la riflessione filosofica, la quale ha il non facile compito di individuare un´atmosfera, una costellazione di elementi all´interno dell´opera che la qualifichino in quanto arte.
Alla luce di queste riflessioni, i tentativi compiuti dagli artisti di delegittimare sul piano delle tecniche  compositive chi li ha preceduti, arrogandosi cosi´ il vanto di essere unici interpreti del loro periodo storico, risultano sterili e votati allo scacco.

Anche le concezioni estetiche di Harold Rosemberg e Donald Judd, seppur da una prospettiva differente, risultano entrambe radicali, poiché invece di considerare centrale il momento del lavoro sulla forma, così da estremizzare la direzione delle loro critiche, danno rilievo ai due poli estremi del processo artistico, ossia, da una parte,  le tesi di coloro i quali danno maggiore importanza alla psiche dell´artista, e dall´altra, al contrario, chi ritiene compiuta un´opera d´arte al di là dell´autore. Occultando, in tal modo, l’effettivo momento determinante, ossia il lavoro sugli elementi formali, tali critici veicolano e impostano le loro teorie su presupposti e concezioni radicali. 

Da un lato Harold Rosemberg  fa della psicologia dell’artista e dell’espressione della sua interiorità un momento fondante della manifestazione artistica; dall´altro Donald Judd, invece, considera già compiuta e formata l’opera indipendentemente dalla manipolazione e dal lavoro da parte dell’artista.

Partiamo dalle considerazione di Rosemberg, per passare poi a dare uno sguardo d´insieme alla questione che stiamo considerando.
Harold Rosemberg, il pioniere dell´Espressionismo astratto e critico d´arte, oltre che grande pittore, nelle sue riflessioni estetiche propende per una considerazione dei processi di composizione artistica che pone l´accento sull´interiorità dell´artista. Per il pittore statunitense, forse influenzato dalle riflessioni psicanalitiche, le quali concepiscono le creazioni artistiche come proiezioni inconsce di chi le compone, le opere d´arte altro non sono che proiezioni, esteriorizzate, della psiche dell´uomo.
Sempre secondo Rosemberg, le opere d´arte sono il costituirsi di impulsi inconsci e di moti dell´animo, che vengono in superficie e sono fissati sulla tela da parte dell´artista. Nessuna riflessione relativa agli elementi formali  invece, per il critico statunitense, risulta degna di una valida considerazione, giacché i principi sensibili – linee e colori – sono subordinati e dipendenti dal flusso di coscienza dell´artista, che solo, per lui, sembra essere determinate nel processo creativo. Rosemberg, nell´esprimere questa posizione, occulta un aspetto del processo, che, a parer mio, risulta fondante, ossia quello relativo al lavoro sulla forma artistica.
Questa riflessione di Rosemberg sarebbe giusta, invece, se le opere d´arte nascessero ex nihilo dall´animo di chi le compone, senza appartenere ad una dimensione sensibile e materiale. L´animo dell´artista, certamente, conta nella produzione, ma fino ad un certo punto. Sono, invece, le reali forze sensibili, quelle forze storico-materiali che si sedimentano nella res artistica, al di qua del flusso di coscienza dell´artista, e che agiscono all´interno dell´opera, a determinare la sua costituzione.

Passiamo adesso alle riflessioni di Donald Judd, per mettere in luce alcune considerazioni che risultano radicali.
Riteniamo non condivisibili, infatti, le accuse volte da Donald Judd, teorico e critico d´arte statunitense, oltre che valente artista Minimal, nei confronti delle composizioni di Mark Di Suvero, in Oggetti Specifici, nelle sue riflessioni estetiche.
Judd, da quel che se ne induce in quest'opera, considera inadeguata e fuori dal periodo storico la tecnica scultorea di Di Suvero, a causa della sua componente espressionista. Il rischio maggiore, dunque, evidenziato, da Judd,  è proprio il  tentativo di definire le opere d´arte in base alla loro appartenenza a un determinato “movimento artistico”, come se lo statuto dell´arte si potesse definire solamente in relazione a tecniche artistiche rispetto ad altre. Tutto ciò sta, infatti, alla base di un fraintendimento, dal momento che la scelta di uno stile rispetto a un altro non risulta, in fin dei conti, fare la differenza tra un'opera valida ed una scadente. Un´opera d´arte minimal ha lo stesso valore di una espressionista, fintantoché non iniziamo a considerare il lavoro sugli elementi formali: gesti, segni, utilizzo di linee e colori o note musicali.

Come e quando, infatti,  viene da domandarsi, è lecito considerare fuori dal tempo, e storicamente inadeguata, una tecnica artistica? Come se Tiziano nel Rinascimento avesse accusato Tintoretto di inadeguatezza e incompetenza formale, proprio per la sua tecnica atipica di composizione.
Con quali criteri possiamo ritenere inadeguata una tecnica “poetica” al cospetto di un’altra?

Importanti e ancora valide restano, a proposito, le riflessioni di T. W. Adorno in  Teoria Estetica del 1969, le quali aiutano a comprendere meglio i processi legati alla creazione. Proprio Adorno, più incisivamente di altri filosofi, sottolinea questa tensione interna delle opere, mettendo in luce le reali dinamiche della produzione artistica, togliendo, inoltre, valore e importanza ai soggetti e alle intenzioni di chi le compone.
La complessità, sempre per Adorno, delle opere d´arte rimanda ad una dimensione che trascende le intenzioni dell´artista, giacche´l´opera è indipendente, e per certi aspetti, paradossalmente, estranea all´autore, il quale, poste le forze materiali che agiscono durante la creazione, si ritrova di fronte un´opera carica di significati altri, che, molto spesso, non aveva nemmeno intenzione di manifestare. Dunque, continua Adorno, le opere d´arte vivono una propria vita, indipendente da quella dell´artista, essendo in grado, quest´ultime, di contenere al proprio interno una costellazione di significati che, a causa del trascorrere del tempo, giacche l`arte abita la dimensione della storia e della temporalita´, si sedimentano all´interno delle opere stesse. Infatti, sempre per Adorno, quanto più grandi sono le opere tanti più significati saranno in grado di contenere. Certamente, alla critica filosofica, sarà affidato il non facile compito di portare alla luce questi significati, con la consapevolezza che, tuttavia, questa critica, per quanti significati sara´in grado di portare alla luce, non potrà mai darci e restituirci il significato assoluto, giacché questo significato non esiste.

Rappresentativa a proposito è la similitudine formulata da Paul Klee, in Confessione creatrice del 1920, dove egli paragona l´opera d´arte ad un grande albero, di cui l´uomo è solo il tronco, mentre la linfa vitale, invece, sale dal terreno - elemento materiale – i rami e le foglie, infine, sono considerati come le vere e proprie opere d´arte.

Non è tanto, anche alla luce di queste riflessioni e nel tentativo di trovare questa terza via rispetto alle altre due qui sopra esaminate,  l’adesione ad una peculiare modalità compositiva o ad un manifesto artistico che fa di un artista un buon artista, e ancora considerare solamente gli aspetti psichici dell´artista, né soltanto quelli relativi ai gesti provocatori, ma quanto la capacità di un artista di lavorare e manipolare la forma artistica. 
L´arte, nonostante le direzioni che questa ha assunto nel secolo passato (per le spinte radicali di una certa avanguardia), resta un fare. 

Dunque: sì a Jean Arp a David Smith, sì a Valéry, Baudelaire, a Paul Klee, Picasso e a Rodin e a tutti coloro i quali hanno saputo lavorare sugli elementi formali.


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