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Mañana en el Bajo Belgrano.

Di SERENA CAPUTO.

Quando sarò musicista scriverò una canzone sul Bajo, come il compatriota Luca Prodan per il suo Abasto. Per ora mi limito a riflettere una serie di immagini del quartiere al mattino.
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I resti che si incontrano passeggiando per il Bajo al mattino sono di varia natura: c’è quel che rimane dei corridori, atleti che salutano l’alba con una corsa per i boschi di Palermo (che in realtà dovrebbero essere di Belgrano, l’utenza è tutta del barrio proprio per l’immediatezza. A quando una petizione per l’annessione?). Alcuni vengono risputati fuori dal parco belli, intonsi, sorridenti e ancora saltellanti, tanto da dubitare che davvero abbiano compiuto un qualche sforzo fisico. La maggioranza invece risorge sotto forma di zombie, con sembianze sfatte, sudate, boccheggianti, che di umano hanno ben poco. Resti che si incrociano o si scontrano con altri resti: quelli della notte, che ancora non sono svaniti con la luce del giorno, le cenerentole dei boschi. Tacchi alti, chiome folte, minigonne, varietà infinita di nazionalità e sessi: los travas y las putas. Alcune di queste creature della notte, abbagliate dal chiarore del giorno che inizia, perdono l’orientamento e finiscono alla deriva, spingendosi fino a calle Ramsay e ai suoi collegi privati: divise con gli stemmi delle scuole che si intersecano con divise di scollature, tacchi alti e minigonne. Il miscuglio è interessante, ma impari: gli esseri notturni sono confusi, intontiti dalle luci e stonano in questo paesaggio di traffico mattutino, di autobus scolastici e genitori che tengono per mano i costosi pargoli. Arrancano, si muovono a tentoni, sbandano. E ricevono reindirizzamenti e piropos(apprezzamenti e lusinghe di varia natura) dai muratori che fanno la guardia albarrio dai tetti delle case basse. Sembra che qui nel Bajo non esista manzana, isolato, senza una casetta coi suoi muratori. Cioè i muratori vengono insieme alla casa, proprio incorporati, e si stabiliscono per l’eternità sui tetti, dove si possono ammirare già alle prime luci dell’alba. Però generalmente l’azione avviene al contrario: si è ammirati. Il compito dei muratori infatti è, oltre che perseverare nella costruzione della casa a cui sono stati dati in dotazione, osservare il passare, nel tempo e nello spazio, dei corpi degli altri abitanti del barrio. E dichiarare ad alta voce il loro verdetto, che sia un saluto, un elogio o un consiglio: buen provecho maestro, cuidado con el perro señora, qué linda sos nena, esperame que bajo mamita. Cose così. La loro funzione è importantissima: mantengono in vita il quartiere, in quello che sembra un eterno costruire e buttare giù, vera essenza di questa zona. Nel Bajo non si sa più chi ha ragione fra i filosofi antichi, l’essere e il divenire sono ormai la stessa cosa.
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Incuranti del dilemma, portieri e proprietari delle casette basse spazzano via dai marciapiedi i resti della notte, bottiglie vuote, vetri e foglie cadute, con la flemma di chi sa che ha davanti l’intera giornata ma che comunque è bene alzarsi presto ed iniziare ad affaccendarsi. Le scope di questi netturbini si incastrano poi nelle mandrie di cani che trottano per le strade del barrio: i resti dei padroni che sono andati a lavorare e che vengono affidati a un dog sitter, un curatore di cani. È comune imbattersi in raggruppamenti di dieci o quindici animali, di varia specie e stazza, portati a spasso da un solo umano: frotte di guinzagli appesi alla cintura, e anche così la possibilità di essere trascinato via è tutt’altro che remota. E quando pensi che basta, che più di così non ne possono accompagnare li vedi fermarsi e citofonare: lasciano il blocco compatto di abbaglianti attaccato a un palo o a un cancello e vanno a prendere un nuovo elemento. Masse latranti crescono.
Altri resti sono i bigliettini, le note, i foglietti di varia natura e dimensione, che si possono incontrare attaccati a pali, alberi, cancelli, fili della luce di questo piccolo grande quartiere. Parlano di lezioni private di canto, di chitarra, di charango, di tango, di inglese. Alcuni invitano al pensionamento, altri pubblicizzano centri di massaggi, altri ancora consigliano di chiamare Katy e Delfi, le ragazze della porta accanto. Messaggi che parlano delle velleità e dei passatempi del barrio.
Ma i resti della notte non sono finiti: in calle La Pampa, di fronte alla fermata del 130, si possono notare due fenomeni particolari. Di tempo ce n’è, l’autobus si fa sempre desiderare. Il primo è una whiskeria, ben nascosta dietro una siepe. Eppure passando al marciapiede di fronte si intuisce l’antro scuro e si legge un cartello che parla di una pasticceria e whiskeria d’altri tempi. E non si sa se gli altri tempi sono un passato remoto o solo di poche ore prima. A quest’ora comunque è chiusa, ma testimoni notturni raccontano di un sorvegliante dallo sguardo truce che analizza cagnescamente gli aspiranti all’ingresso. Si vocifera che una sola occhiata della guardia possa trasformare in statue di sale anche gli esploratori più valorosi, se non benvenuti nella whiskeria. E questo ci porta al secondo punto notevole visibile dalla fermata del 130, un altro resto della notte: un corvo. Nero. Troppo immobile per essere vero, attira l’attenzione. È finto, forse di plastica. Mormorii e mezze voci lasciano intuire che sia stato un grande amore della guardia della whiskeria, che, tradito e abbandonato, si sia poi vendicato con il suo sguardo letale, trasformando il suo amore di gioventù in un corvo e lasciandolo appeso come monito a chi tradisce l’amore o tenta di raggirare i buttafuori dei locali.
Ormai è giorno, i fletes dei traslochi sono già operativi. Sui marciapiedi i resti di quello che trasportano: divani, tavoli e televisori. Arrivano da più o meno lontano e saranno parte integrante del quartiere.
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C’è movimento. Di cose, di animali, di persone. È un barrio sempre nuovo, sempre in procinto di cambiare. È questa la sua condizione permanente. È lontana l’epoca della villa. L’unico resto, in questo caso di un’era, è il Conjunto Pampa, un blocco di case popolari costruito per tamponare parzialmente lo sgombero della villa, nei tempi della dittatura e del mondiale nel vicino stadio del River Plate. Quando qui era ancora un bordo malsano della città. Poi c’è stata la bonifica. Oggi è ancora un bordo, la città qui finisce, ma di tutt’altro stile. Oltre c’è l’autostrada, c’è la Costanera, c’è il Río de la Plata. Il Bajo è l’ultimo baluardo dell’Argentina, andando oltre si attraversa il fiume e poi c’è l’Uruguay.
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È giorno ormai: il 107 e il 42 si muovono pieni, avanti e indietro da Ciudad Universitaria, chiamata solo Ciudad da chi ci va più di due volte a settimana e quindi si sente in confidenza. Perché le facoltà scientifiche sono sempre lontane dal centro, dalla città, dalla vita? Non l’ho mai capito. L’inafferrabilità della scienza per i comuni mortali è prima di tutto una questione materiale, fisica, di distanze. Basta de aislamiento, portiamo la scienza nelle piazze.
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Ritorniamo nel Bajo, senza volare troppo: guardie, pubbliche e private, ferme agli angoli delle strade. Osservano e salutano. Manganellate in potenza che nel migliore dei mondi possibili, questo, non vengono scagliate. Hanno giubbotti catarifrangenti, spessi. Anche ora che fa caldo. Hanno mai sparato a qualcuno nel Bajo? Domande al vento, senza risposta, che rimbalzano sui gabbiotti di plastica dai vetri oscurati che popolano le vie del barrio. In realtà solo alcuni hanno i vetri oscurati, quelli vicino a qualche edificio di rilievo, qualche ambasciata o società di chissà cosa. Per il resto i vetri sono trasparenti, si può sbirciare all’interno e trovare un mate e un termos, una radio accesa, un libro, un pacchetto di sigarette, vasi di fiori, il resto del pranzo. A volte una persona, generalmente anziana e di sesso maschile. Sono le guardie di barrio, gli abitanti misteriosi di queste costruzioni instabili e a volte fatiscenti, altre volte solidissime e ben piantate per terra. Dei vecchietti con cui scambiare una chiacchiera sulla partita, sul tempo, sulle stagioni, su le cose non sono più com’erano una volta. Più che vigilare o intimorire un eventuale ladro, danno un aria di ‘qui c’è sempre qualcuno, un movimento, una presenza, un occhio che potrebbe vederti…lascia perdere, non rubare’. Non so se funziona, ma ormai queste costruzioni, e i loro abitanti, fanno parte dell’immaginario collettivo portegno. Almeno quello dei barrios chetos, i quartieri ricchi. Non c’è quartiere di villette senza i suoi casotti di guardia. Casette che fanno la guardia ad altre case.
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L’ultimo resto del quartiere, l’Incucai, è attivo: sedie a rotelle e passi incerti si muovono al suo interno in maniera più o meno complessa. È un blocco di edifici che copre tre o quattro isolati, oggi adibiti al centro trapianti argentino e a centro di cura e attività per disabili. All’interno ci sono bar, piscine, case, università, ospedali, locali di varia natura. È una città in miniatura: fino a sessant’anni fa qui viveva la Ciudad Estudiantil Peronista, che alloggiava ragazzi di umili origini. Venivano dalla vicina villa, ma anche da più lontano. Ci dormivano, ci andavano a scuola, organizzavano attività, ci vivevano. C’era proprio tutto: casa del governo dei ragazzi, pattuglie di guardia dei ragazzi, abitazioni…poi Perón se ne è andato e anche la Ciudad Estudiantil è stata rimossa. Quel che ne resta è la forma: sembra un piccolo villaggio turistico immerso in questo barrio di bordo città.
Le torri di Ceano, torres de Cheano in castigliano, non sono altro che i restos de anoche, gli avanzi della notte passata, in lunfardo (un linguaggio rioplatense nato per nascondere, criptare la comunicazione). Questo è un altro canto d’amore al Bajo, tradotto in immagini: i resti che si possono incontrare camminando fra le sue vie alberate, i resti della notte, i resti di altre vite, i resti di una o più epoche. I resti di un tempo che scorre e allo stesso tempo ristagna, qui, in queste strade del Bajo.

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