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El séptimo milagro di J. I. Kleinman. Un incontro con l`autore sopravvissuto alla Shoah.

PREFAZIONE
a cura di Daniel Filoni.


                         L' incontro con Kleinman alla Colombo.



Vi è nel popolo un dolore muto e rassegnato, che si ritrae in sé e tace. Ma vi è anche un dolore lacerante; esso si scioglie in lacrime e, da quel momento, finisce in lamenti” ( Fratelli Karamàzov, pag, 68, Oscar Mondadori). Così si esprimeva Dostoevskij nel suo libro: “ I fratelli Karamàzov” a proposito del dolore. Con questa frase icastica, è come se l´autore ci mettesse di fronte a due possibilità. La prima, quella che ci riguarda direttamente in questo articolo, pone l´accento sull´impossibilità di poter esprimere e dire il dolore attraverso il linguaggio; la seconda, invece, riguarda la possibilità di poterlo esprimere il dolore, anche se non con parole, quantomeno in gesti o espressioni del corpo. Dostoevskij qui ci sta dicendo che, esistono vari gradi di intensità del dolore e che la possibilità di esprimerlo non dipende dalla volontà del soggetto senziente ma dall´intensità del dolore stesso. Difatti, di alcuni dolori ci si può liberare, elaborandoli ed esprimendoli; di altri, invece, non rimane che la consapevolezza di doverli portare in noi perché inesprimibilmente profondi e indicibili. Sicché, al cospetto di certi dolori, il logos si ritrae, incapace di formulare parole o espressioni pertinenti. È come se, davanti all´inspiegabilità del Pathos, il Logos, spaventato, si ritraesse e rinunciasse a ciò che maggiormente gli compete: formulare frasi ed espressioni sensate e ragionevoli circa le sensazioni e le impressioni ricevute dal mondo esterno. Ed è proprio di questa prima dimensione del dolore che il libro: “El sèptimo milagro” di Jorge Kleinman è pervaso e costituito. Questo libro, difatti, è una diretta testimonianza degli orrori che l´autore stesso ha vissuto in prima persona durante la sua esperienza di rifugiato nei campi di concentramento nazisti. – Per quanto riguarda questa testimonianza, rimando al libro di Kleinman o a l´articolo che segue scritto da Isabella Mazzoni. –

Ma come è possibile una testimonianza diretta, scritta in un libro, sui campi di concentramento se abbiamo appena sostenuto, con Dostoevskij, che il dolore quando è troppo forte è inesprimibile? È l`autore stesso che ci risponde a questo proposito con le sue parole: “ Per cinquant´anni non ho potuto dire o riferire parola alcuna sui campi di concentramento. Solo dopo cinquant´anni mi sono deciso a testimoniare ciò che ho vissuto in prima persona, allorquando ho iniziato ad ascoltare alcuni pazzi negazionisti i quali sostenevano che le barbarie commesse dai nazisti nei campi di concentramento fossero frutto di teorie fatte da ebrei o da nemici del nazismo.”

Sono queste le parole che abbiamo ascoltato ieri 19 Maggio 2017 proferite dalla bocca di Kleinman stesso, il quale si è recato in visita alla nostra scuola Cristoforo Colombo di Buenos Aires, per riferirci del libro, qui sopra menzionato, e della sua personale vicenda. Sicché, tutti i presenti nell`aula magna della scuola, hanno potuto ascoltare il prezioso e struggente racconto di quest`uomo anziano, provato visibilmente dalla tremenda esperienza vissuta. Quindi, fa pensare il fatto che solamente davanti alle barbarie del negazionismo – per certi aspetti, nefaste come le barbarie stesse (nazismo) – Kleinman si sia deciso a parlare su ciò che per cinquant´anni non ha potuto nemmeno nominare. Come se, dopo l´Olocausto, l`unica forma espressiva adatta fosse la testimonianza e non la rappresentazione dei fatti. Anche l`autore del: “El sèptimo milagro” sembra esserne consapevole.

Tutto questo, tuttavia, solleva un nugolo di riflessioni filosofiche alle quali si riallacciano anche le teorie di filosofi affermati, come quelle di T. W. Adorno e di G. Lukàcs a proposito dell´Olocausto e della Shoah. Per Adorno, infatti,  la morte nei campi di concentramento ha acquisito una dimensione quale mai aveva avuto prima. Non per un fatto quantitativo (milioni di persone), ma per un fatto qualitativo: come i condannati ai campi di sterminio vivevano e come furono uccisi. La morte, in generale, sempre secondo Adorno, è la conclusione di una vita. C’è un rapporto tra vita e morte, una logica interna, una consequenzialità. Quello che caratterizza Auschwitz, invece, è che non c’è più questo rapporto, ma la vita viene disintegrata in quanto vita. Pertanto, qui la morte non è più la conclusione naturale di una vita, che, in quanto conclusione naturale, le dà senso e la costituisce. Anche Lukàcs, d´altronde, si espresse similmente nella sua opera giovanile:  “gli Dei se ne sono andati e rimangono lì, muti spettatori”. Non rispondono alle nostre domande: “Con l’omicidio amministrato di milioni di persone la morte è diventata così temibile come mai prima era stata. (Teoria del Romanzo pp. 325-326)

Molti anni fa, oramai, mi ricai a un ricevimento del prof. Di Giacomo, titolare della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma, benché allievo del benemerito Emilio Garroni (cattedra internazionale di Estetica), al quale mi rivolsi in questi termini: “ Perché Adorno è così preso a specificare che dopo Auschwitz , e solo dopo  Auschwitz,  l`arte deve essere scabra ed essenziale ( Adorno, nella sua Teoria Estetica, parla dell`ideale del nero per l`arte ) altrimenti questa si ridurrebbe in un prodotto culinario? Se il mondo e la vita sono sempre stati terreno fertile per barbarie e per omicidi insensati e l`arte del passato (tradizionale) non ha risentito di questa crudeltà, mostrandosi, al contrario, lieta e serena? Il professore mi rispose pressappoco con le parole di Lukàcs, sopra menzionate: Con l’omicidio amministrato di milioni di persone la morte è diventata così temibile come mai prima era stata. Mi ritirai in silenzio con la spiegazione appena ricevuta.
Solo qualche anno dopo scoprii che tale spiegazione meritava di essere integrata con una ulteriore riflessione. E fu la considerazione delle teorie di Nietzsche a proposito della morte di Dio a spingermi verso una risoluzione del problema. Allora pensai in questi termini: “E se le barbarie dell`Olocausto fossero legate imprescindibilmente con il terribile e sconvolgente evento della morte di Dio, profetizzato da Nietzsche? Solo uomini privi di speranze future e di valori morali potevano ridursi a bestie feroci come si ridussero i nazisti. Il Novecento fu il secolo più barbarico della storia umana, proprio perchè l`esistenza, dopo tanti secoli, non era più garantita da un Dio creatore il quale, attraverso la creazione e il suo amore si faceva garante della giustizia e della sensatezza dell`esistenza. Anche nei secoli precedenti il Novecento esisteva il male, tuttavia quel male veniva letto e giustificato alla luce della presenza di Dio il quale redimeva il male stesso con la promessa della beatitudine eterna. E se gli uomini stessi nel Novecento si fossero trasformati in diavoli per vendicarsi contro lo sgarbo fatto da Dio, per averli lasciati soli al cospetto della sofferenza e del non senso? Pertanto, alla luce di questa riflessione, anche l`arte serena tradizionale può essere compresa in questo modo. Non è che gli artisti prima del Novecento non risentissero del dolore e della sofferenza, ma quel dolore e quella sofferenza venivano trasfigurati alla luce della presenza della divinità, la quale, sola, garantiva l`ordine e la bellezza del mondo.
Tutto questo discorso per riallacciarmi al problema della testimonianza di Kleinman, con la quale mi trovo in accordo, essendone inoltre orgoglioso. Dunque, che cosa rimane da fare dopo l`Olocausto? Rimane, indubbiamente, il compito etico della testimonianza, come Klainman si è proposto di fare, dal momento che tale dolore non può essere espresso in rappresentazioni ma solo testimoniato e partecipato, affiché le barbarie siano criticate, abolite, combattute in saecula saeculorum.



El séptimo milagro  di J. I. Kleinman (1998)
Di Isabella Mazzoni



El libro es una autobiografía narrada en primera persona por un sobreviviente del Holocausto llamado Jorge Israel Klainman. Nacido con el nombre de Srulek el seno de una familia judeo-polaca, a los 14 años fue llevado a un campo de extermino. Allí fallecieron sus padres y su hermana menor Ruth, pero él y sus otros dos hermanos, Moniek y Débora, lograron sobrevivir. Sin embargo, antes del fin de la guerra, debió durante tres años y medio pasar por cinco campos de concentración y exterminio. Jorge, quien actualmente reside en Argentina, decidió escribir su historia como respuesta a los negadores del Holocausto.

En el campo de Prokocim, todos los días, al salir para el recuento, estaban los cuerpos de quienes fueron abatidos por los disparos durante la noche. Los domingos los prisioneros se encargaban de la limpieza de la barraca y del lavado y desinfección de la ropa. Luego tenían derecho a un baño, pero nunca lograban librarse de los piojos. Una madrugada, Srulek decide robarles comida a las autoridades para luchar contra el hambre (la dieta de los prisioneros consistía principalmente de sopa). Un oficial lo atrapa con las manos en la masa, pero es salvado por otro guardia. Al día siguiente, se anuncia que todos deberían permanecer en formación para presenciar una ejecución. Muere en la horca un joven acusado de haber silbado los acordes de “La Internacional”. Srulek entonces decide escapar colándose en uno de los grupos que diariamente eran llevados para ir a trabajar a las fábricas del gueto de Cracovia.

En el gueto de Cracovia, la gente (unas 30.000 personas que vivían en condiciones infrahumanas) pasaba hambre y las enfermedades causaban un continuo aumento de la tasa de mortalidad. Los alemanes intentaban mantener viva la esperanza de sus víctimas hasta la última instancia, por lo que alentaron la formación de instituciones representativas del gueto, administradas por los propios judíos. Algunos judíos se unieron a las filas alemanas para ponerse a salvo y tener mejores condiciones de vida a cambio de colaborar activamente con los verdugos. Srulek ingresó de contrabando en el gueto, mezclándose con un grupo que trabajaba en una de las fábricas de la ciudad. El gueto había sido administrativamente dividido en dos secciones: los trabajadores útiles y los ancianos y enfermos que serían asesinados. En el gueto había comercio basado en el trueque, salas de teatro, escuelas clandestinas y sinagogas. En invierno, con temperaturas bajo cero, las noches se vuelven un infierno y Srulek debe dormir en lugares ocultos como tachos de basuras y hoyos para no ser descubierto. Algunos habitantes del gueto se compadecían y le regalaban ropa y comida. Un día, cuando llegan varios guardias con la intención de llevarse a todos los judíos del gueto, Srulek decide infiltrarse en las columnas de trabajadores y logra salir aunque no tuviese la tarjeta de trabajo. Se llevan a los campos de exterminio a 17.000 personas en vagones de carga a presión, con más de 100 personas en vagones donde normalmente entran sólo 70.

Marchan hacia el campo de Muerte de Plaszow, que Spielberg reconstruyó en La lista de Schindler. De acuerdo a las leyes nazis, los chicos judíos menores de 18 años (como el protagonista, quien tiene 14 años) debían ser ejecutados inmediatamente. Cuando tiene que darle a un guardia alemán sus datos (lugar y fecha de nacimiento), le dice que nació en Kielce, Polonia en el año 1925 (en realidad nació en el 1928). El guardia se ríe, no creyendo su fecha de nacimiento, pero aún así lo deja entrar. Recibe el equipo de preso: un plato de latón, una cuchara de madera y una manta y toalla. Había en el campo una fosa en la que judíos, clérigos, resistentes polacos y condenados a muerte eran ultimados por las ráfagas de ametralladora y luego de morir eran apilados formando piras. Un comandante de la policía judía le encarga a Srulek la tarea de cuidar de su hija Mania, una bebé de no más de un año. Se convierte en el protegido del comandante y así las condiciones de vida de Srulek mejoran. Cuando salía del trabajo le quedaba una hora para el toque de queda, que aprovechaba para informarse sobre la suerte de su hermano Moniek, de quien se había separado en el campo de Prokocim. Le cuentan que él había sido trasladado a un campo para trabajar en una fábrica de municiones. Un día el comandante le informa a Srulek que hizo arreglos para sacar a Mania del campo, ya que si la descubrían los tres serían asesinados. Le consigue a Srulek un trabajo en la fábrica de cepillos, donde el jefe lo maltrata pero no debe sufrir el frío. Debían limpiar la barraca y como recompensa les daban sopa, margarina y cigarrillos, que Srulek cambiaba por pan. En el campo de Plaszow, el comandante, Amon Goeth, frecuentemente salía a la terraza con un rifle y les disparaba a los presos sin razón alguna. El único que podía controlar a Goeth era un industrial que pasaría a la historia por su obra humanitaria: Oskar Schindler. Un día el comandante llama a Srulek con un fustazo en el pecho y lo arrean junto con otros en rebaño hasta un recinto alambrado donde debían aguardar el cumplimiento de la sentencia. Los llevan a la fosa, pero Srulek logra sobrevivir y unos trabajadores encargados de apilar los cuerpos lo ocultan en una carretilla usada para transportar la ropa de los ajusticiados. Despierta en la enfermería con una herida en la pierna, y el médico le dice que para no ser descubierto asumirá la identidad de otro muchacho, Gutman, quien sobrevivió a la fosa pero morirá pronto. El doctor Ulman lo protege y le da un trabajo en la enfermería. Para fines de julio de 1944 se les comunica a los internos del campo que, debido al avance de los rusos y la consecuente clausura del campo, serían trasladados en tren. Debido al calor y la acumulación de personas en los vagones las posibilidades de sobrevivir a un viaje así se irían haciendo más escasas cuanto más se prolongara. Llegan a Mauthausen luego de tres días y sin haber comido ni bebido.

Durante la marcha los guardias asesinan con un balazo a quienes se encontraban demasiado agotados para mantener el paso. Al llegar a Mathausen les asignan un número y les cortan el pelo. Les dan luego el uniforme del campo y les hacen un tatuaje. A Srulek se le infecta y se le borra. En el campo no solo se encontraban judíos, sino también prisioneros rusos, deportados griegos, franceses, checos e italianos antifascistas. Quienes no podían trabajar (se debía primero durante un mes superar una prueba: cargar en una pendiente una piedra de treinta a cuarenta kilos de peso) eran enviados a los hornos crematorios, que funcionaban noche y día. Srulek no logra cargar con la piedra y lo salva un suboficial SS que conocía de su estadía en Prokocim, quien le consigue un trabajo en la peluquería. Luego de un viaje de ocho horas en tren llegan a un nuevo campo en Melk. Mientras tanto, Moniek escapa del tren que se dirigía a Buchenwald gracias a una viga del piso del vagón que se suelta. Él y otro prisionero saltan del tren a través de la abertura y encuentran a la Resistencia Checa. Deciden unirse, prefiriendo morir en combate a volver a ser prisioneros en los campos.

Los presos del campo de Melk trabajaban para dos grandes firmas: Siemens y Mayer Reuder Kraus. En esa época las grandes empresas alemanas, hoy firmas respetadas mundialmente, se sumaron al movimiento nazi y cimentaron su éxito económico en el aprovechamiento de la mano de obra esclava que el régimen ponía a su disposición. Oskar Schindler es recordado por haber sido un empresario humanitario que intentó salvar a sus trabajadores. En la barraca, Srulek le ofrece a un oficial alemán traducirle sus instrucciones a Nikolai, un ruso encargado de la barraca. El ruso lo elige como intérprete y a cambio Srulek le pide que lo cambien de la cucheta más alta (donde se sufre más el calor y el frío) a la del medio. Le asignan un trabajo en un sitio de construcción, excavando túneles en la roca con un martillo de veinte kilos. Srulek no logra levantarlo, por lo que le dan el trabajo de portador de puntas. Se habitúa rápidamente al trabajo y traba amistad con Nikolai y con el alemán a cargo del taller de afilado. Un día los oficiales descubren que, para conservar el calor, se vistió con una especie de camiseta hecha con una bolsa y se lo sentencia a recibir en frente de toda la población del campo veinticinco latigazos que él mismo debería contar en voz alta. Acaba desmayándose luego de recibir seis latigazos y despierta en su cucheta, paralizado desde los talones hasta la cintura. El ruso Nikolai lo salva con unos remedios caseros y lo esconde en las literas más altas para que no lo vieran durante las inspecciones. Permanece una semana allí hasta que puede empezar a moverse. Los presos descubren que Nikolai ha estado robando parte de las raciones y, cuando se presenta la oportunidad, Srulek le miente, diciéndole que si las raciones para los presos no aumentaban los alemanes lo llevarían al horno crematorio. Las raciones recuperan así su volumen anterior. Se anuncia que el campo de Melk se va a cerrar y los presos se dirigen en tren hacia Ebensee.
Ebensee era un campo semiabandonado, sin trabajo y alimento, cuyos habitantes parecían esqueletos vivientes. Unos prisioneros rusos le confiesan a Srulek que para alimentarse comían la carne de los cadáveres. Srulek se ofrece como voluntario para el trabajo de remoción de escombros en una estación ferroviaria destruida por los bombardeos aliados, donde encuentra alimentos. Durante la primavera, un día los prisioneros descubren que los guardias se habían marchado y deciden linchar a los kapos y colaboracionistas que se habían destacado por sus malos tratos. Luego saquean los almacenes de la SS, pero varios acaban muriendo por no haber comido en mucho tiempo. Entre los linchamientos y el shock alimentario fallecieron la mitad de los sobrevivientes. El cinco de mayo franquearon los portones del campo tres tanques del ejército norteamericano. Los oficiales les cuentan que los alemanes se rindieron y que Hitler se suicidó. Llegaron luego varios camiones, en los que venían enfermeras, médicos y personas de civil. Los sobrevivientes fueron puestos en cuarentena hasta que las epidemias de tifus y disentería fueran dominadas. Finalizada la tarea de registro llevada a cabo por los empleados civiles norteamericanos, toda la población del campo fue evacuada en camiones hacia Salzburgo.

En Salzburgo se alojan en un ex campamento militar, y Srulek encuentra a un muchacho que había estado con él y Moniek en el campo de Prokocim. Le cuenta a Srulek que Moniek logró escapar saltando del tren y que probablemente se unió a la Resistencia. Un día los habitantes del campamento descubren que un jerarca nazi se había hecho pasar por un sobreviviente y lo asesinan. Una mujer norteamericana del campamento le ofrece a Srulek un trabajo recorriendo los campamentos de refugiados. Su tarea era entrevistar a los sobrevivientes, confeccionar fichas y listas, reuniendo ese material para entregarlo semanalmente a las oficinas de la UNRRA (Administracion de las Naciones Unidas para la Ayuda y la Rehabilitación) en Salzburgo. Luego les anuncian que todos los ex prisioneros de origen judío serían trasladados a Italia, por lo que se marcha a Módena esperando encontrar a sus hermanos Moniek y Débora.

En Módena recibe una carta proveniente de Buenos Aires escrita por su tía Elena, quien había tenido noticias de Srulek mientras hacía unos trámites en la AMIA. Ella lo insta a venir a Argentina, pero él decide quedarse más tiempo en Módena para encontrar a sus hermanos. Posteriormente se entera de que su hermana Débora murió en el campo de concentración de Auschwitz, mientras que su hermano Moniek sobrevivió al Holocausto pero murió luego debido a un ataque de apendicitis. Finalmente decide viajar a Argentina, a donde logra entrar clandestinamente en 1947 luego de pasar por Brasil y Paraguay.

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