di Daniel Filoni
La chiave di ogni contenuto
artistico (...) sta nella sua tecnica.
T.W.Adorno
Prefazione di Isabella Mazzoni
Una vez finalizado el rodaje del episodio Le tentazioni del dottor Antonio (1962), el italiano Federico Fellini, considerado hoy en día uno de los directores de cine más influyentes y prestigiosos de toda la historia, está atravesando una crisis de inspiración. Por su cabeza circula un acopio de diversas ideas vagas que no consiguen articularse en un proyecto claro. Consulta a su amigo Ennio Flaiano, guionista y crítico de cine, pero éste no se muestra muy convencido ante la propuesta de Fellini. ¿Cómo podrían filmar una película carente de un argumento preciso? Al director tampoco se le ocurre un título que darle. La llama de modo provisorio 8½, ya que anteriormente él había dirigido por su cuenta seis films (Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria y La dolce vita, con el que consigue alcanzar la fama mundial) y, junto a otros directores, tres “mitades” de películas (Luci del varietá, el episodio Agenzia Matrimoniale de L’amore in cittá y el episodio Le tentazioni del dottor Antonio en Boccaccio ‘70). Cuando decide finalmente comunicarle a su productor Angelo Rizzoli que no tiene ninguna historia que contar, lo invitan en Cinecittá al cumpleaños de un colega. Allí, cuando todos se le acercan con la intención de felicitarlo por su nueva película (la cual, en realidad, ya no existe), Fellini tiene un arrebato de inspiración: la trama de 8½ se centrará en torno a un director de cine frustrado a quien no se le ocurren ideas para un nuevo film.
Una vez finalizado el rodaje del episodio Le tentazioni del dottor Antonio (1962), el italiano Federico Fellini, considerado hoy en día uno de los directores de cine más influyentes y prestigiosos de toda la historia, está atravesando una crisis de inspiración. Por su cabeza circula un acopio de diversas ideas vagas que no consiguen articularse en un proyecto claro. Consulta a su amigo Ennio Flaiano, guionista y crítico de cine, pero éste no se muestra muy convencido ante la propuesta de Fellini. ¿Cómo podrían filmar una película carente de un argumento preciso? Al director tampoco se le ocurre un título que darle. La llama de modo provisorio 8½, ya que anteriormente él había dirigido por su cuenta seis films (Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria y La dolce vita, con el que consigue alcanzar la fama mundial) y, junto a otros directores, tres “mitades” de películas (Luci del varietá, el episodio Agenzia Matrimoniale de L’amore in cittá y el episodio Le tentazioni del dottor Antonio en Boccaccio ‘70). Cuando decide finalmente comunicarle a su productor Angelo Rizzoli que no tiene ninguna historia que contar, lo invitan en Cinecittá al cumpleaños de un colega. Allí, cuando todos se le acercan con la intención de felicitarlo por su nueva película (la cual, en realidad, ya no existe), Fellini tiene un arrebato de inspiración: la trama de 8½ se centrará en torno a un director de cine frustrado a quien no se le ocurren ideas para un nuevo film.
El actor encargado de interpretar
al protagonista de la película fue Marcello Mastroianni, con quien el director
había ya trabajado en La dolce vita.
Mastrioanni debió convivir con él por unos tres meses, observando con atención todos
sus movimientos y ademanes con el fin de entrar en el personaje de Guido
Anselmi, el alter-ego de Fellini en 8½.
El resto del reparto lo conformó la afamada Claudia Cardinale (quien se
consagró como actriz interpretando el rol de la musa y la mujer ideal de
Anselmi), la amante clandestina de Fellini, Sandra Milo (desempeñando asimismo
en el film el papel de la amante del director), y la actriz francesa Anouk
Aimée (la esposa de Anselmi, quien se muestra distante debido a la infidelidad
y las mentiras de su marido).
El rodaje del film se
inició el 9 de mayo de 1962 y se concluyó en el mes de septiembre del mismo año.
8½ comenzó a proyectarse en los cines
el 14 de febrero de 1963, obteniendo un éxito inmediato. Fue ovacionada por el
público en los Festivales de Cannes y de Moscú, en el que ganó el Primer
Premio. El film fue galardonado con dos premios Oscar (Mejor Película
Extranjera y Mejor Diseño de Vestuario) y recibió otras nominaciones para Mejor
Director, Mejor Guion Original y Mejor Diseño de Producción.
Hoy en día 8½ es considerado un clásico y una de
las mejores películas no sólo de Federico Fellini, sino de toda la historia. Su
inmensa popularidad puede deberse a que en ella Fellini no cuenta una historia
precisa, sino que exhibe con sinceridad el proceso de creación de una obra de
arte, mostrando con maestría las dudas y los dilemas de todos los artistas en
una realidad que se funde con los sueños y las memorias.
Per comprendere veramente un’opera d’arte è necessario avvicinarla con
l’occhio del filosofo e il cuore del poeta, affinché il “di più”, ossia lo
spirituale, prodotto dalla configurazione dei suoi elementi materiali e
sensibili, si esteriorizzi ed inizi a brillare.
Che cosa ne pensa del nostro regista Federico Fellini? “Egli danza...egli
danza, ecco”... Con queste parole
poetiche nel film La ricotta, Pier Paolo
Pasolini, per bocca di Orson Welles che interpreta il suo pensiero, descrive il
cinema di Fellini. Questa definizione è così carica di significati che vorrei
cercare di interpretarla con una riflessione. È da sottolineare, già da subito,
come Pasolini nel descrivere il cinema felliniano rimandi immediatamente a un
mondo come quello della danza che investe vasti territori di significato. Come
non ricordare, ad esempio, le magnifiche sequenze di Otto e ½, dove
il tema della danza sembra predominante: la
scena delle Terme e il voluttuoso ballo
della Saraghina ne sono testimonianza, fino a Amarcord, attraversato interamente da questo elemento vitale.
Nessuna definizione tecnico-formale quindi, ma una caratterizzazione di
tipo impressionistico quella che il poeta regista dà a proposito del cinema
felliniano. Perché è la dimensione della vita che il cinema di Federico Fellini
cerca di illuminare dal proprio interno, con una stupenda varietà di
situazioni, eventi e circostanze. Non credo si esageri se l’interpretazione che
dà Pasolini venga letta in questo modo: tutto il cinema felliniano tende a
presentare e a produrre la dimensione dionisiaca dell’esistenza, quella
dimensione che pone l’accento sugli aspetti vitalistici e sensuali, ancora
prima di ogni caratterizzazione e classificazione logica dell’esistente. Ciò
non significa che il cinema felliniano non faccia riflettere, ma, al contrario,
che le riflessioni che questo cinema induce sono provocate e suggerite da una
visione del mondo estetica (dionisiaca) e non logico-riflessiva (teoretica).
Pertanto il cinema di Fellini colpisce e fa riflettere: i suoi film risentono
della modalità espressiva che rimanda alla dimensione del pathos, tanto cara all’artista romagnolo. Per riprendere una famosa
e pertinente frase di Nietzsche della Nascita
della tragedia: “Sempre Dioniso si scarica in un mondo apollineo di
immagini”, sottolineo che ogni opera
d’arte riuscita deve, attraverso la forma estetica, manifestare gli impulsi vitali
senza mai che questi medesimi si esauriscano o si cristallizzino in una forma
definita o assoluta. Tale, infatti, è la dimensione della danza e della vita –
che Pasolini citava – che dovrebbe essere presente in ogni creazione artistica,
come lo è, d’altronde, nelle opere di Fellini.
Al cospetto dell’irrigidimento del cinema nel Dopoguerra, della sclerosi
verificatasi tra il cinema Neorealista e quello irrompente di Hollywood, con il
suo fantasmagorico apparato produttivo, viene alla luce, negli anni che vanno
dal 1945, risalenti alle prime collaborazioni con il già affermato Rossellini (Roma città aperta e Paisà), fino al 1990, quando esce il suo ultimo film: La voce della luna, il cinema di
Federico Fellini.
Si è soliti, da parte della critica cinematografica, dividere l’oeuvre
felliniana in un due grandi blocchi contrapposti, quello delle prime opere come
Lo sceicco bianco, I Vitelloni, La
strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, fino alla Dolce vita, che per alcuni aspetti compositivi rappresenta uno
spartiacque; il secondo che va da Otto e
½, Il satiricon, Amarcord, fino a La
voce della Luna, film questi caratterizzati, invece, da una nuova tecnica
formale, legata agli studi sull’inconscio di Jung e dalla frequentazione con lo
psicologo junghiano Bernhard, il quale fornisce a Federico Fellini una chiave
di lettura dei meccanismi della psiche che egli utilizzerà per la realizzazione
dei suoi successivi lavori cinematografici. È senz’altro vero che, nell’
universo multiforme del cinema, Fellini è stato un pioniere dell’esplorazione
di tecniche e stili audaci e differenti, come Picasso lo è stato nella pittura.
Per una lettura più approfondita riguardo a questi film rimando al conciso e
puntuale saggio di Roberto Provenzano, Invito
al cinema di Fellini, edito da Mursia,
nel 1995.
Nei suoi primi film Fellini, dunque, ancora inesperto e acerbo, è tutto
proteso nel raccontare storie e personaggi ben definiti, che ritraggono e
descrivono la situazione storico-sociale della rinascente Italia del
Dopoguerra. È nell’ universo della rappresentazione e della descrizione di
situazioni e caratteri reali che le sue prime opere, fortemente influenzate dal
Neorealismo e dai maestri che hanno accompagnato la sua formazione giovanile, come
Alberto Lattuada e Carlo Lizzani, vedono la luce. Ed in questo Fellini non è
più originale di tanti altri suoi colleghi che occupavano posizioni di rilievo
nel cinema italiano di questo periodo.
Il film che inizia a segnare invece una svolta a livello tecnico è
sicuramente La dolce vita. Nonostante quest’opera presenti ancora una storia narrata
in terza persona, alcuni elementi fanno presagire l’incombente avanzare di una svolta
a livello sia formale sia contenutistico, che si delinerà con evidenza
solamente con Otto e ½, come la
frammentarietà e l’episodicità della sequenza filmica. Gli episodi presenti in
questo film – tale è l’elemento della svolta formale – non sono più legati alla
descrizione logica degli eventi, non tendono a seguire, come nei film
precedenti, un ordine logico e cronologico ma si limitano, attraverso una
tecnica innovativa, a testimoniare la frammentarietà dell’esistenza. Più che la
ricerca e la descrizione sintetica ed armonica del reale, Fellini, inizia a esplorare
i limiti della rappesentazione, concentrandosi piuttosto sugli elementi
disarmonici e caotici del narrato, lasciando al lettore il compito di
ricostruire, come in un grande puzzle, i pezzi della vicenda presentata. E
davvero questi sono quegli elementi rivoluzionari che aprono la stada alla
grande svolta formale di Otto e ½.
Senza tenere conto dei due aspetti fondamentali che s’incrociano a vicenda – la
scoperta della psicologia junghiana e le nuove tecniche compositive utilizzate
per la prima volta nella Dolce vita –
non si afferrerebbe a pieno sia la gestazione sia la formazione (ideazione e
sceneggiatura con la collaborazione di Ennio Flaiano) di un film come Otto e ½.
Prima di iniziare a scrivere su questo film, vorrei proporre un paragone
che io mi figuro da qualche tempo nella mente a proposito di Otto e ½ di Fellini. Sono spiacente se
qualche studioso erudito possa rimanere sorpreso, a me piace e quindi lo
faccio. Otto e ½ rappresenta per l’arte contemporanea ciò che il David di Michelangelo rappresenta per
l’arte del Rinascimento, ossia il suo capolavoro. È difficile fare paragoni con
altri film, nonostante tali sperimentazioni formali fossero precedute già da
altri tentativi cinematografici, come quelli di Ingmar Bergman e Alain Resnais: il primo con Il posto delle fragole e l’altro con Hiroshima mon amour. Infatti, Bergman e Resnais avevano già sperimentato tecniche innovative, senza però raggiungere
i risultati che ottenne Fellini con questo film.
Dopo aver dato uno sguardo d’insieme sul cinema felliniano, possiamo
addentranci ora nell’esame del suo film maggiormente riuscito. Tre sono i temi
principali su cui vorrei soffermarmi, per cercare di far luce su un’opera così
importante e complessa come Otto e ½.
Questi tre temi sono: la psicologia junghiana; la tecnica formale, legata alla
tematica della disartizzazione dell’arte moderna; e, infine, l’uso della
memoria involontaria che Fellini riprende da Marcel Proust ma con varianti e innovazioni
degne di rilievo. Non bisogna cadere nell’errore di pensare a tre temi separati
tra loro, al contrario, bisogna leggerli come se fossero complementari: in un
crescendo musicale ciò che viene prima non esclude quel che viene dopo, anzi lo
incrementa e lo completa.
La portata che ha per Fellini la scoperta della psicologia di Jung, grazie
alla frequentazione dello psicologo Ernest Bernhard, è fondamentale per il suo
cinema che va da Otto e ½ in avanti.
Con la scoperta dell’inconscio, allo stesso modo di quei marinai che approdano
improvvisamente su isole sconosciute, così Federico Fellini sperimenta tecniche
e linguaggi ignorati prima. Potremmo anche dire che la scoperta dell’inconscio
rappresenta per la filmografia felliniana ciò che la scoperta di Copernico
rappresentò nella rivoluzione astronomica, ossia un cambiamento radicale e
definitivo. Sicché Otto e ½ nasce e
risente in pieno di queste scoperte psicologiche. È Fellini stesso che
sottolinea l’importanza di questa nuova inclinazione: “ È stato come l’aprirsi
di panorami sconosciuti, la scoperta di nuove prospettive da cui guardare la
vita, la possibilità di fruire delle sue esperienze in modo più coraggioso, più
vasto, di recuperare tante energie e tanti materiali sepolti sotto macerie di
timori, inconsapevolezze, ferite trascurate (F. Fellini, 1980, pag, 82). Della psicologia junghiana lo attrae la
considerazione che lo psicologo dà all’universo della fantasia creatrice dell’artista,
in particolar modo il concetto del simbolo. A differenza di Freud in cui il
simbolo è visto come un sostituto di qualcosa d’altro che è soggetto a
rimozione e che non è possibile esprimere, per Jung, invece, il simbolo è un
modo per manifestare e mettere in forma l’inesprimibile, seppur mediatamente.
Alla luce di questa acquisizioni teoretiche e formali, Fellini modifica il
suo linguaggio cinematografico. Non più, quindi, una tecnica che tende alla
razionalità e alla logicità, alla descrizione ordinata e consequenziale di
storie ed eventi, per quanto realistici e dolorosi questi possano apparire,
come nel cinema neorealistico, ma la flessione verso linguaggi e tecniche
legate all’inconscio, come quelle della condensazione
e del dislocamento delle immagini in
altri contesti non sempre logicamente pertinenti. Tutto il film Otto e ½ è pensato alla luce di nuove
tecniche, al punto che Fellini rinuncia definitivamente ad ogni pretesa di
descrizione e di oggettivizzazione del reale. Perché Otto e ½ è il film meglio
riuscito di Fellini? Perché a differenza dei film successivi in cui l’elemento
della psicologia predomina – si può
parlare di un’ipertrofia dell’inconscio – sulla forma dando vita a una surreale
visione del mondo: come in Giulietta
degli spiriti e il satiricon; in Otto
e ½, invece, ciò non si verifica. Pur essendosi lasciato alle spalle il
cinema organico della rappresentazione, in
Otto e ½ Fellini sembra giocare ancora con l’elemento
della psicologia, senza che questo abbia tuttavia un predominio schiacciante
sulla forma. Ed è il gioco artistico dell’elemento psicologico con gli elementi
sensibili e materiali, senza che l’uno prevalga sull’altro, che affascina e
stupisce nell’opera e che la rende unica all’interno della filmografia felliniana.
Veniamo ora al problema centrale della forma: il tema che per eccellenza si
presta a riflessioni e a considerazioni. Va fatto, innanzi tutto, per capire il
senso del nostro discorso, un distinguo tra l’opera d’arte organica e quella
non organica. Mentre l’opera d’arte organica, secondo le riflessioni di T.W. Adorno,
cerca di nascondere e di occultare il suo essere stata creata, dando così un’idea
di serenità e di conciliazione con il mondo (arte tradizionale del Rinascimento); l’opera inorganica (arte contemporanea), invece, quella che
non è più creata come una totalità compatta e omogenea, mostra il suo essere
prodotta da frammenti occasionali. La prima, dunque, cerca, nel nome della
bellezza, di occultare gli aspetti caotici dell’esistenza, operando una sorta
di falsa conciliazione; l’altra, invece, mostra come ogni sintesi tra l’arte e
il mondo risulta una finzione ed un inganno. Perché do tanta importanta a Otto e ½? Perché il film, grazie all’uso innovativo
della forma, sancisce, nel cinema felliniano, il passaggio dalle opere
organiche della giovinezza a quello inorganiche della maturità, dal momento che
né il tema della rappresentazione di una storia coerente né l’elemento della
psicologia dominano sulla forma. È bellissimo costatare, dunque, come il
microcosmo del cinema felliniano riesca, magistralmente, a farsi specchio del
macrocosco artitistico contemporaneo. Credo che questo sia un merito ulteriore
da attribuire al grande artista romagnolo.
Guido Anselmi, il regista e protagonista, si è scoperto in crisi proprio
nel momento in cui avrebbe dovuto iniziare il suo nuovo film. Recatosi in cura
alle terme è circondato dalla miriade dei personaggi che ignorano il loro ruolo
e che chiedono costantemente informazioni e delucidazioni al regista, il quale
però non è in grado di accontentarli dal momento che non sa egli stesso quale
sia la storia che vuole narrare. In realtà, non c’è nessuna storia ed anche l’acclamato
e famoso Anselmi ne è cosciente. Tutto il film si muove sul sottile equilibrio
di tale consapevolezza, ossia dell’incapacità del raccontare e del fare
un’opera che il regista non è in grado di mettere in forma, a causa della sua
crisi d’ispirazione creativa. Da una parte il consigliere del regista:
l’erudito e antipatico Daumier, il quale rappresenta la coscienza critica e la
sfera logico-razionale del regista; dall’altra, il produttore del film, che già
ha investito i soldi per la costruzione di una enorme lampa di lancio, pensata
per la fantasmagorica storia che l’Anselmi deve scrivere e filmare. Dunque, Otto e ½ prende forma proprio su questo
fragile terreno, sul crocevia della regressione all’opera realistica (incarnata
dalla coscienza critica di Daumier) o all’approdo al cinema di finzione
hollywoodiano (incarnata dal facoltoso produttore); è tra questi due indirizzi
cinematografici, evidentemente, che si colloca il film di Fellini.
In realtà, ciò che caratterizza il film è il fatto che Fellini nell’opera
non ha nulla da raccontare. Qui non si tratta di descrivere oggettivamente il
mondo circostante – per questo c’è la scienza e non serve l’arte – ma invece occorre
esibire, piuttosto, il processo di formazione di un’opera. Ecco perchè il film
merita un’attenzione particolare: giacché mostra il processo con cui è stato
ideato, e proprio nell’esibire magistralmente la caoticità della mente del
regista (dubbi, tentennamenti, impossibilità) ci testimonia la frammentarietà e
la mancanza di un Ordine e di un Senso nell’esistenza. Solo quando verso la
fine l’Anselmi si dirige disperato alla rampa di lancio per l’inizio delle
riprese, consapevole di non avere la storia da raccontare, e di essere finito
come regista, preso atto di tale fallimento, qualcosa improvvisamente cambia
l’ordine degli eventi. Proprio nell’istante in cui Guido Anselmi si sta
allontanando, mentre l’enorme torre viene smantellata, appare il telepata
Maurice, il quale gli annuncia che tutti lo stanno aspettanto e che attendono
l’inizio delle riprese. Presi per mano dal regista divenuto bambino, che suona
il flauto, alcuni attori danzano in un’aia circolare. A questo punto, gli
attori appaiono sulla scena, i personaggi del film, che hanno costellato la
mente del regista, durante il suo buio periodo, danno vita a un girotondo al
quale anche l’Anselmi partecipa. Il tutto sublimato dalla bellissima colonna
sonora di Nino Rota, suggestiva,
toccante e puntuale. Nessun film realistico dunque, nemmeno uno di
fantascienza, ma un film più innovativo e profondo, quello sui dubbi
dell’artista e sulle condizioni di possibilità dell’arte nei tempi moderni. Stupisce,
infatti, che a chiudere il film sia proprio un piccolo cerchio di luce, che con
il suo splendore dà vita e speranza ad un mondo oramai dominato dal disincanto.
Dobbiamo ritornare ancora sul problema della forma artistica usata in Otto e ½ da Fellini. È necessario
spendere qualche ulteriore parola sul rapporto tra il cinema di
rappresentazione e quello dominato dall’industria culturale. Abbiamo già
sottolineato come nel mezzo delle due tendenze si situi il film di Fellini. Da
una parte, dunque, il mondo della rappresentazione e il suo cinema descrittivo,
in cui vige un rapporto diretto, di causa e effetto, tra l’arte e la società:
dove l’arte si trova a recitare la parte di ancilla nei confronti delle vicende
degli uomini. Dall’altra, l’universo fantasmagorico dell’industria culturale,
che, rappresentando mondi altri rispetto al nostro, si limita a fare da
consolazione al vigente per il semplice fatto di dimenticare l’aspetto critico
(negazione determinata della società): trascurando, in tal modo, di puntare il
dito sulle “crepe e sugli abissi” aperti dalla società moderna, di cui parlava
già il giovane Lukács. Tra i due universi paralleli, dunque, si situa Otto e ½, che, con la sua forma
artistica innovativa, ci fa riflettere e ci invita alla partecipazione.
Ciò che mi interessa, a questo punto, sottolineare, è la migrazione dei
conflitti e delle tensioni sociali dell’epoca all’interno di Otto e ½, giacché le trasformazioni
della tecnica artistica implicano necessariamente anche delle metamorfosi dei
contenuti sociali. Su questi aspetti lavorarono sorprendentemente Fellini e Flaiano.
Sono quei cambiamenti, secondo Adorno, che fanno si che gli artisti,
formalmente avanzati, abbandonino le forme tradizionali; solo in tal modo,
infatti, sostiene il filosofo della scuola di Francoforte, l’arte, attraverso
una forma lavorata, smembrata e destrutturata, testimonia la frammentarietà
dell’esistenza e la falsità della società in cui viviamo. Perciò Fellini è più
avanguardistico e moderno di artisti che si dichiarano tali e che tuttavia non
lo sono, giacché rimangono irretiti nella rete delle due tecniche contrapposte
qui menzionate.
Ma quali sono le nuove tecniche artistiche con cui Otto e ½ è stato composto? La tecnica
drammaturgica adoperata da Fellini per esprimere il travaglio creativo del
regista è quella, ripresa dalla letteratura, dello stream of consciousness, dove Fellini, in uno slancio di
creatività, assomma realtà, sogni e finzioni senza soluzione di continuità. Una
tecnica formale, infatti, che tende a esibire pensieri, fantasie e sogni in un
libero flusso di coscienza. Inoltre, Fellini non utilizza questa tecnica solo
per la descrizione di sogni e fantasie ma anche per l’esibizione di situazioni
della realtà quotidiana, provocando una sensazione di estraniamento e di dislocazione
a l’occhio del fruitore che la contempla. Più specificamente, le innovazioni
sono: simbologie scenografiche, deformazioni cromatiche, luci di taglio che
trasformano ogni spazio in palcoscenico, costruzioni angolari anomale e
obiettivi grandangolari.
Fellini viene situato tra i maggiori registi del cinema mondiale di tutti i
tempi anche grazie al talento con cui utilizza la tecnica.
Queste sperimentazioni formali investono anche un altro aspetto centrale del
film in questione, ossia: la memoria involontaria. Quest’ultima viene ripresa da
Fellini, con un accento e una modalità innovativi, diversi da Proust. Mentre
per Proust la memoria involontaria viene suscitata da un fatto, evento,
pensiero o sentimento legato all’esperienza, che fa riemergere improvvisamente
un ricordo custodito e trattenuto nel profondo, per Fellini la memoria
involontaria, invece, non è suscitata immediatamente dall’esterno (vita), ma,
viene alla luce dal cortocircuito tra i fatti, condensati nell’incoscio del
regista, e la tecnica cinematografica che usa. Qui torna in gioco la tecnica
cinematrografica. Sono, infatti, le simbologie scenografiche, il dislocamento
di immagini improvvise, le costruzioni angolari anomale e la condensazioni di
significati che danno forma alla memoria involontaria, non le sensazioni
suscitate dall’esperienza, come avviene nel caso dello scrittore francese.
Vivide nella mente restano, riguardo a Otto
e ½, le scene del dialogo con i genitori morti del regista; il ballo della
Saraghina e soprattutto la scena con il telepata Maurice e la sua aiutante che
pronuncia le famose parole: “asi nisi masa”, provocando nel regista una serie di
ricordi dell’infanzia, legati alla vita familiare e ai teneri giochi infantili nella
fattoria della nonna attorniato dai cugini.
Come sottolineato da Christian Metz (Roberto Provenzano, Invito al cinema di Fellini, edito da Mursia, nel 1995), infine, in Otto e ½ Fellini costruisce il suo film en abîme – nelle profondità della psiche –, dove comportamenti e immagini agiscono come specchi contrapposti. Si è parlato, pertanto, di un film metalinguistico e metanarrativo in cui i problemi del protagonista sono gli stessi problemi di Fellini, dove l’arte, mostrando se stessa come produzione, attrae al proprio interno elementi vitali, senza che questi si esauriscano in una rappresentazione realistica dell’esistente. Ed è questa insuperata dialettica – dialettica negativa appunto – tra la vita e la forma artistica che fa di Otto e ½ un’opera riuscita al massimo grado.
Come sottolineato da Christian Metz (Roberto Provenzano, Invito al cinema di Fellini, edito da Mursia, nel 1995), infine, in Otto e ½ Fellini costruisce il suo film en abîme – nelle profondità della psiche –, dove comportamenti e immagini agiscono come specchi contrapposti. Si è parlato, pertanto, di un film metalinguistico e metanarrativo in cui i problemi del protagonista sono gli stessi problemi di Fellini, dove l’arte, mostrando se stessa come produzione, attrae al proprio interno elementi vitali, senza che questi si esauriscano in una rappresentazione realistica dell’esistente. Ed è questa insuperata dialettica – dialettica negativa appunto – tra la vita e la forma artistica che fa di Otto e ½ un’opera riuscita al massimo grado.
Video 8 e 1/2 di Federico Fellini realizzato nella scuola Cristoforo Colombo
Ho preso spunto per questo articolo da due libri: Roberto Provenzano, Invito al cinema di Fellini, edito da Mursia, nel 1995; Giuseppe Di Giacomo e
Claudio Zambianchi, Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, edito da
Laterza, nel 2008.
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