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8 e ½ di Federico Fellini tra Neorealismo e industria culturale

di Daniel Filoni

La chiave di ogni contenuto artistico (...) sta nella sua tecnica.
T.W.Adorno


Prefazione di Isabella Mazzoni

Una vez finalizado el rodaje del episodio Le tentazioni del dottor Antonio (1962), el italiano Federico Fellini, considerado hoy en día uno de los directores de cine más influyentes y prestigiosos de toda la historia, está atravesando una crisis de inspiración. Por su cabeza circula un acopio de diversas ideas vagas que no consiguen articularse en un proyecto claro. Consulta a su amigo Ennio Flaiano, guionista y crítico de cine, pero éste no se muestra muy convencido ante la propuesta de Fellini.  ¿Cómo podrían filmar una película carente de un argumento preciso? Al director tampoco se le ocurre un título que darle. La llama de modo provisorio , ya que anteriormente él había dirigido por su cuenta seis films (Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria y La dolce vita, con el que consigue alcanzar la fama mundial) y, junto a otros directores, tres “mitades” de películas (Luci del varietá,  el episodio Agenzia Matrimoniale de L’amore in cittá y el episodio Le tentazioni del dottor Antonio en Boccaccio ‘70). Cuando decide finalmente comunicarle a su productor Angelo Rizzoli que no tiene ninguna historia que contar, lo invitan en Cinecittá al cumpleaños de un colega. Allí, cuando todos se le acercan con la intención de felicitarlo por su nueva película (la cual, en realidad, ya no existe), Fellini tiene un arrebato de inspiración: la trama de se centrará en torno a un director de cine frustrado a quien no se le ocurren ideas para un nuevo film.

El actor encargado de interpretar al protagonista de la película fue Marcello Mastroianni, con quien el director había ya trabajado en La dolce vita. Mastrioanni debió convivir con él por unos tres meses, observando con atención todos sus movimientos y ademanes con el fin de entrar en el personaje de Guido Anselmi, el alter-ego de Fellini en . El resto del reparto lo conformó la afamada Claudia Cardinale (quien se consagró como actriz interpretando el rol de la musa y la mujer ideal de Anselmi), la amante clandestina de Fellini, Sandra Milo (desempeñando asimismo en el film el papel de la amante del director), y la actriz francesa Anouk Aimée (la esposa de Anselmi, quien se muestra distante debido a la infidelidad y las mentiras de su marido).

El rodaje del film se inició el 9 de mayo de 1962 y se concluyó en el mes de septiembre del mismo año. comenzó a proyectarse en los cines el 14 de febrero de 1963, obteniendo un éxito inmediato. Fue ovacionada por el público en los Festivales de Cannes y de Moscú, en el que ganó el Primer Premio. El film fue galardonado con dos premios Oscar (Mejor Película Extranjera y Mejor Diseño de Vestuario) y recibió otras nominaciones para Mejor Director, Mejor Guion Original y Mejor Diseño de Producción.

Hoy en día es considerado un clásico y una de las mejores películas no sólo de Federico Fellini, sino de toda la historia. Su inmensa popularidad puede deberse a que en ella Fellini no cuenta una historia precisa, sino que exhibe con sinceridad el proceso de creación de una obra de arte, mostrando con maestría las dudas y los dilemas de todos los artistas en una realidad que se funde con los sueños y las memorias.


Per comprendere veramente un’opera d’arte è necessario avvicinarla con l’occhio del filosofo e il cuore del poeta, affinché il “di più”, ossia lo spirituale, prodotto dalla configurazione dei suoi elementi materiali e sensibili, si esteriorizzi ed inizi a brillare.

Che cosa ne pensa del nostro regista Federico Fellini? “Egli danza...egli danza, ecco... Con queste parole poetiche nel film La ricotta, Pier Paolo Pasolini, per bocca di Orson Welles che interpreta il suo pensiero, descrive il cinema di Fellini. Questa definizione è così carica di significati che vorrei cercare di interpretarla con una riflessione. È da sottolineare, già da subito, come Pasolini nel descrivere il cinema felliniano rimandi immediatamente a un mondo come quello della danza che investe vasti territori di significato. Come non ricordare, ad esempio, le magnifiche sequenze di Otto e ½, dove il tema della danza sembra predominante: la scena delle Terme e il voluttuoso ballo della Saraghina ne sono testimonianza, fino a Amarcord, attraversato interamente da questo elemento vitale.

Nessuna definizione tecnico-formale quindi, ma una caratterizzazione di tipo impressionistico quella che il poeta regista dà a proposito del cinema felliniano. Perché è la dimensione della vita che il cinema di Federico Fellini cerca di illuminare dal proprio interno, con una stupenda varietà di situazioni, eventi e circostanze. Non credo si esageri se l’interpretazione che dà Pasolini venga letta in questo modo: tutto il cinema felliniano tende a presentare e a produrre la dimensione dionisiaca dell’esistenza, quella dimensione che pone l’accento sugli aspetti vitalistici e sensuali, ancora prima di ogni caratterizzazione e classificazione logica dell’esistente. Ciò non significa che il cinema felliniano non faccia riflettere, ma, al contrario, che le riflessioni che questo cinema induce sono provocate e suggerite da una visione del mondo estetica (dionisiaca) e non logico-riflessiva (teoretica). Pertanto il cinema di Fellini colpisce e fa riflettere: i suoi film risentono della modalità espressiva che rimanda alla dimensione del pathos, tanto cara all’artista romagnolo. Per riprendere una famosa e pertinente frase di Nietzsche della Nascita della tragedia: “Sempre Dioniso si scarica in un mondo apollineo di immagini”,  sottolineo che ogni opera d’arte riuscita deve, attraverso la forma estetica, manifestare gli impulsi vitali senza mai che questi medesimi si esauriscano o si cristallizzino in una forma definita o assoluta. Tale, infatti, è la dimensione della danza e della vita – che Pasolini citava – che dovrebbe essere presente in ogni creazione artistica, come lo è, d’altronde, nelle opere di Fellini.

Al cospetto dell’irrigidimento del cinema nel Dopoguerra, della sclerosi verificatasi tra il cinema Neorealista e quello irrompente di Hollywood, con il suo fantasmagorico apparato produttivo, viene alla luce, negli anni che vanno dal 1945, risalenti alle prime collaborazioni con il già affermato Rossellini (Roma città aperta e Paisà), fino al 1990, quando esce il suo ultimo film: La voce della luna, il cinema di Federico Fellini.
Si è soliti, da parte della critica cinematografica, dividere l’oeuvre felliniana in un due grandi blocchi contrapposti, quello delle prime opere come Lo sceicco bianco, I Vitelloni, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, fino alla Dolce vita, che per alcuni aspetti compositivi rappresenta uno spartiacque; il secondo che va da Otto e ½, Il satiricon, Amarcord, fino a La voce della Luna, film questi caratterizzati, invece, da una nuova tecnica formale, legata agli studi sull’inconscio di Jung e dalla frequentazione con lo psicologo junghiano Bernhard, il quale fornisce a Federico Fellini una chiave di lettura dei meccanismi della psiche che egli utilizzerà per la realizzazione dei suoi successivi lavori cinematografici. È senz’altro vero che, nell’ universo multiforme del cinema, Fellini è stato un pioniere dell’esplorazione di tecniche e stili audaci e differenti, come Picasso lo è stato nella pittura. Per una lettura più approfondita riguardo a questi film rimando al conciso e puntuale saggio di Roberto Provenzano, Invito al cinema di Fellini, edito da Mursia, nel 1995.

Nei suoi primi film Fellini, dunque, ancora inesperto e acerbo, è tutto proteso nel raccontare storie e personaggi ben definiti, che ritraggono e descrivono la situazione storico-sociale della rinascente Italia del Dopoguerra. È nell’ universo della rappresentazione e della descrizione di situazioni e caratteri reali che le sue prime opere, fortemente influenzate dal Neorealismo e dai maestri che hanno accompagnato la sua formazione giovanile, come Alberto Lattuada e Carlo Lizzani, vedono la luce. Ed in questo Fellini non è più originale di tanti altri suoi colleghi che occupavano posizioni di rilievo nel cinema italiano di questo periodo.

Il film che inizia a segnare invece una svolta a livello tecnico è sicuramente La dolce vita. Nonostante quest’opera presenti ancora una storia narrata in terza persona, alcuni elementi fanno presagire l’incombente avanzare di una svolta a livello sia formale sia contenutistico, che si delinerà con evidenza solamente con Otto e ½, come la frammentarietà e l’episodicità della sequenza filmica. Gli episodi presenti in questo film – tale è l’elemento della svolta formale – non sono più legati alla descrizione logica degli eventi, non tendono a seguire, come nei film precedenti, un ordine logico e cronologico ma si limitano, attraverso una tecnica innovativa, a testimoniare la frammentarietà dell’esistenza. Più che la ricerca e la descrizione sintetica ed armonica del reale, Fellini, inizia a esplorare i limiti della rappesentazione, concentrandosi piuttosto sugli elementi disarmonici e caotici del narrato, lasciando al lettore il compito di ricostruire, come in un grande puzzle, i pezzi della vicenda presentata. E davvero questi sono quegli elementi rivoluzionari che aprono la stada alla grande svolta formale di Otto e ½. Senza tenere conto dei due aspetti fondamentali che s’incrociano a vicenda – la scoperta della psicologia junghiana e le nuove tecniche compositive utilizzate per la prima volta nella Dolce vita – non si afferrerebbe a pieno sia la gestazione sia la formazione (ideazione e sceneggiatura con la collaborazione di Ennio Flaiano) di un film come Otto e ½.

Prima di iniziare a scrivere su questo film, vorrei proporre un paragone che io mi figuro da qualche tempo nella mente a proposito di Otto e ½ di Fellini. Sono spiacente se qualche studioso erudito possa rimanere sorpreso, a me piace e quindi lo faccio.  Otto e ½ rappresenta per l’arte contemporanea ciò che il David di Michelangelo rappresenta per l’arte del Rinascimento, ossia il suo capolavoro. È difficile fare paragoni con altri film, nonostante tali sperimentazioni formali fossero precedute già da altri tentativi cinematografici, come quelli di Ingmar Bergman e Alain Resnais: il primo con Il posto delle fragole e l’altro con Hiroshima mon amour. Infatti, Bergman e Resnais avevano già sperimentato tecniche innovative, senza però raggiungere i risultati che ottenne Fellini con questo film.

Dopo aver dato uno sguardo d’insieme sul cinema felliniano, possiamo addentranci ora nell’esame del suo film maggiormente riuscito. Tre sono i temi principali su cui vorrei soffermarmi, per cercare di far luce su un’opera così importante e complessa come Otto e ½. Questi tre temi sono: la psicologia junghiana; la tecnica formale, legata alla tematica della disartizzazione dell’arte moderna; e, infine, l’uso della memoria involontaria che Fellini riprende da Marcel Proust ma con varianti e innovazioni degne di rilievo. Non bisogna cadere nell’errore di pensare a tre temi separati tra loro, al contrario, bisogna leggerli come se fossero complementari: in un crescendo musicale ciò che viene prima non esclude quel che viene dopo, anzi lo incrementa e lo completa.

La portata che ha per Fellini la scoperta della psicologia di Jung, grazie alla frequentazione dello psicologo Ernest Bernhard, è fondamentale per il suo cinema che va da Otto e ½ in avanti. Con la scoperta dell’inconscio, allo stesso modo di quei marinai che approdano improvvisamente su isole sconosciute, così Federico Fellini sperimenta tecniche e linguaggi ignorati prima. Potremmo anche dire che la scoperta dell’inconscio rappresenta per la filmografia felliniana ciò che la scoperta di Copernico rappresentò nella rivoluzione astronomica, ossia un cambiamento radicale e definitivo. Sicché Otto e ½ nasce e risente in pieno di queste scoperte psicologiche. È Fellini stesso che sottolinea l’importanza di questa nuova inclinazione: “ È stato come l’aprirsi di panorami sconosciuti, la scoperta di nuove prospettive da cui guardare la vita, la possibilità di fruire delle sue esperienze in modo più coraggioso, più vasto, di recuperare tante energie e tanti materiali sepolti sotto macerie di timori, inconsapevolezze, ferite trascurate (F. Fellini, 1980, pag, 82). Della psicologia junghiana lo attrae la considerazione che lo psicologo dà all’universo della fantasia creatrice dell’artista, in particolar modo il concetto del simbolo. A differenza di Freud in cui il simbolo è visto come un sostituto di qualcosa d’altro che è soggetto a rimozione e che non è possibile esprimere, per Jung, invece, il simbolo è un modo per manifestare e mettere in forma l’inesprimibile, seppur mediatamente.

Alla luce di questa acquisizioni teoretiche e formali, Fellini modifica il suo linguaggio cinematografico. Non più, quindi, una tecnica che tende alla razionalità e alla logicità, alla descrizione ordinata e consequenziale di storie ed eventi, per quanto realistici e dolorosi questi possano apparire, come nel cinema neorealistico, ma la flessione verso linguaggi e tecniche legate all’inconscio, come quelle della condensazione e del dislocamento delle immagini in altri contesti non sempre logicamente pertinenti. Tutto il film Otto e ½ è pensato alla luce di nuove tecniche, al punto che Fellini rinuncia definitivamente ad ogni pretesa di descrizione e di oggettivizzazione del reale. Perché Otto e ½ è il film meglio riuscito di Fellini? Perché a differenza dei film successivi in cui l’elemento della psicologia predomina  – si può parlare di un’ipertrofia dell’inconscio – sulla forma dando vita a una surreale visione del mondo: come in Giulietta degli spiriti e il satiricon; in Otto e ½, invece, ciò non si verifica. Pur essendosi lasciato alle spalle il cinema organico della rappresentazione,  in Otto e ½  Fellini sembra giocare ancora con l’elemento della psicologia, senza che questo abbia tuttavia un predominio schiacciante sulla forma. Ed è il gioco artistico dell’elemento psicologico con gli elementi sensibili e materiali, senza che l’uno prevalga sull’altro, che affascina e stupisce nell’opera e che la rende unica all’interno della filmografia felliniana.

Veniamo ora al problema centrale della forma: il tema che per eccellenza si presta a riflessioni e a considerazioni. Va fatto, innanzi tutto, per capire il senso del nostro discorso, un distinguo tra l’opera d’arte organica e quella non organica. Mentre l’opera d’arte organica, secondo le riflessioni di T.W. Adorno, cerca di nascondere e di occultare il suo essere stata creata, dando così un’idea di serenità e di conciliazione con il mondo (arte tradizionale del Rinascimento); l’opera inorganica (arte contemporanea), invece, quella che non è più creata come una totalità compatta e omogenea, mostra il suo essere prodotta da frammenti occasionali. La prima, dunque, cerca, nel nome della bellezza, di occultare gli aspetti caotici dell’esistenza, operando una sorta di falsa conciliazione; l’altra, invece, mostra come ogni sintesi tra l’arte e il mondo risulta una finzione ed un inganno. Perché do tanta importanta a Otto e ½?  Perché il film, grazie all’uso innovativo della forma, sancisce, nel cinema felliniano, il passaggio dalle opere organiche della giovinezza a quello inorganiche della maturità, dal momento che né il tema della rappresentazione di una storia coerente né l’elemento della psicologia dominano sulla forma. È bellissimo costatare, dunque, come il microcosmo del cinema felliniano riesca, magistralmente, a farsi specchio del macrocosco artitistico contemporaneo. Credo che questo sia un merito ulteriore da attribuire al grande artista romagnolo.

Guido Anselmi, il regista e protagonista, si è scoperto in crisi proprio nel momento in cui avrebbe dovuto iniziare il suo nuovo film. Recatosi in cura alle terme è circondato dalla miriade dei personaggi che ignorano il loro ruolo e che chiedono costantemente informazioni e delucidazioni al regista, il quale però non è in grado di accontentarli dal momento che non sa egli stesso quale sia la storia che vuole narrare. In realtà, non c’è nessuna storia ed anche l’acclamato e famoso Anselmi ne è cosciente. Tutto il film si muove sul sottile equilibrio di tale consapevolezza, ossia dell’incapacità del raccontare e del fare un’opera che il regista non è in grado di mettere in forma, a causa della sua crisi d’ispirazione creativa. Da una parte il consigliere del regista: l’erudito e antipatico Daumier, il quale rappresenta la coscienza critica e la sfera logico-razionale del regista; dall’altra, il produttore del film, che già ha investito i soldi per la costruzione di una enorme lampa di lancio, pensata per la fantasmagorica storia che l’Anselmi deve scrivere e filmare. Dunque, Otto e ½ prende forma proprio su questo fragile terreno, sul crocevia della regressione all’opera realistica (incarnata dalla coscienza critica di Daumier) o all’approdo al cinema di finzione hollywoodiano (incarnata dal facoltoso produttore); è tra questi due indirizzi cinematografici, evidentemente, che si colloca il film di Fellini.

In realtà, ciò che caratterizza il film è il fatto che Fellini nell’opera non ha nulla da raccontare. Qui non si tratta di descrivere oggettivamente il mondo circostante – per questo c’è la scienza e non serve l’arte – ma invece occorre esibire, piuttosto, il processo di formazione di un’opera. Ecco perchè il film merita un’attenzione particolare: giacché mostra il processo con cui è stato ideato, e proprio nell’esibire magistralmente la caoticità della mente del regista (dubbi, tentennamenti, impossibilità) ci testimonia la frammentarietà e la mancanza di un Ordine e di un Senso nell’esistenza. Solo quando verso la fine l’Anselmi si dirige disperato alla rampa di lancio per l’inizio delle riprese, consapevole di non avere la storia da raccontare, e di essere finito come regista, preso atto di tale fallimento, qualcosa improvvisamente cambia l’ordine degli eventi. Proprio nell’istante in cui Guido Anselmi si sta allontanando, mentre l’enorme torre viene smantellata, appare il telepata Maurice, il quale gli annuncia che tutti lo stanno aspettanto e che attendono l’inizio delle riprese. Presi per mano dal regista divenuto bambino, che suona il flauto, alcuni attori danzano in un’aia circolare. A questo punto, gli attori appaiono sulla scena, i personaggi del film, che hanno costellato la mente del regista, durante il suo buio periodo, danno vita a un girotondo al quale anche l’Anselmi partecipa. Il tutto sublimato dalla bellissima colonna sonora di Nino Rota,  suggestiva, toccante e puntuale. Nessun film realistico dunque, nemmeno uno di fantascienza, ma un film più innovativo e profondo, quello sui dubbi dell’artista e sulle condizioni di possibilità dell’arte nei tempi moderni. Stupisce, infatti, che a chiudere il film sia proprio un piccolo cerchio di luce, che con il suo splendore dà vita e speranza ad un mondo oramai dominato dal disincanto.

Dobbiamo ritornare ancora sul problema della forma artistica usata in Otto e ½ da Fellini. È necessario spendere qualche ulteriore parola sul rapporto tra il cinema di rappresentazione e quello dominato dall’industria culturale. Abbiamo già sottolineato come nel mezzo delle due tendenze si situi il film di Fellini. Da una parte, dunque, il mondo della rappresentazione e il suo cinema descrittivo, in cui vige un rapporto diretto, di causa e effetto, tra l’arte e la società: dove l’arte si trova a recitare la parte di ancilla nei confronti delle vicende degli uomini. Dall’altra, l’universo fantasmagorico dell’industria culturale, che, rappresentando mondi altri rispetto al nostro, si limita a fare da consolazione al vigente per il semplice fatto di dimenticare l’aspetto critico (negazione determinata della società): trascurando, in tal modo, di puntare il dito sulle “crepe e sugli abissi” aperti dalla società moderna, di cui parlava già il giovane Lukács. Tra i due universi paralleli, dunque, si situa Otto e ½, che, con la sua forma artistica innovativa, ci fa riflettere e ci invita alla partecipazione.

Ciò che mi interessa, a questo punto, sottolineare, è la migrazione dei conflitti e delle tensioni sociali dell’epoca all’interno di Otto e ½, giacché le trasformazioni della tecnica artistica implicano necessariamente anche delle metamorfosi dei contenuti sociali. Su questi aspetti lavorarono sorprendentemente Fellini e Flaiano. Sono quei cambiamenti, secondo Adorno, che fanno si che gli artisti, formalmente avanzati, abbandonino le forme tradizionali; solo in tal modo, infatti, sostiene il filosofo della scuola di Francoforte, l’arte, attraverso una forma lavorata, smembrata e destrutturata, testimonia la frammentarietà dell’esistenza e la falsità della società in cui viviamo. Perciò Fellini è più avanguardistico e moderno di artisti che si dichiarano tali e che tuttavia non lo sono, giacché rimangono irretiti nella rete delle due tecniche contrapposte qui menzionate. 

Ma quali sono le nuove tecniche artistiche con cui Otto e ½ è stato composto? La tecnica drammaturgica adoperata da Fellini per esprimere il travaglio creativo del regista è quella, ripresa dalla letteratura, dello stream of consciousness, dove Fellini, in uno slancio di creatività, assomma realtà, sogni e finzioni senza soluzione di continuità. Una tecnica formale, infatti, che tende a esibire pensieri, fantasie e sogni in un libero flusso di coscienza. Inoltre, Fellini non utilizza questa tecnica solo per la descrizione di sogni e fantasie ma anche per l’esibizione di situazioni della realtà quotidiana, provocando una sensazione di estraniamento e di dislocazione a l’occhio del fruitore che la contempla. Più specificamente, le innovazioni sono: simbologie scenografiche, deformazioni cromatiche, luci di taglio che trasformano ogni spazio in palcoscenico, costruzioni angolari anomale e obiettivi grandangolari.  
Fellini viene situato tra i maggiori registi del cinema mondiale di tutti i tempi anche grazie al talento con cui utilizza la tecnica.

Queste sperimentazioni formali investono anche un altro aspetto centrale del film in questione, ossia: la memoria involontaria. Quest’ultima viene ripresa da Fellini, con un accento e una modalità innovativi, diversi da Proust. Mentre per Proust la memoria involontaria viene suscitata da un fatto, evento, pensiero o sentimento legato all’esperienza, che fa riemergere improvvisamente un ricordo custodito e trattenuto nel profondo, per Fellini la memoria involontaria, invece, non è suscitata immediatamente dall’esterno (vita), ma, viene alla luce dal cortocircuito tra i fatti, condensati nell’incoscio del regista, e la tecnica cinematografica che usa. Qui torna in gioco la tecnica cinematrografica. Sono, infatti, le simbologie scenografiche, il dislocamento di immagini improvvise, le costruzioni angolari anomale e la condensazioni di significati che danno forma alla memoria involontaria, non le sensazioni suscitate dall’esperienza, come avviene nel caso dello scrittore francese. Vivide nella mente restano, riguardo a Otto e ½, le scene del dialogo con i genitori morti del regista; il ballo della Saraghina e soprattutto la scena con il telepata Maurice e la sua aiutante che pronuncia le famose parole: “asi nisi masa”, provocando nel regista una serie di ricordi dell’infanzia, legati alla vita familiare e ai teneri giochi infantili nella fattoria della nonna attorniato dai cugini.

Come sottolineato da Christian Metz (Roberto Provenzano, Invito al cinema di Fellini, edito da Mursia, nel 1995), infine,  in Otto e ½ Fellini costruisce il suo film en abîme – nelle profondità della psiche –, dove comportamenti e immagini agiscono come specchi contrapposti. Si è parlato, pertanto, di un film metalinguistico e metanarrativo in cui i problemi del protagonista sono gli stessi problemi di Fellini, dove l’arte, mostrando se stessa come produzione, attrae al proprio interno elementi vitali, senza che questi si esauriscano in una rappresentazione realistica dell’esistente. Ed è questa insuperata dialettica – dialettica negativa appunto – tra la vita e la forma artistica che fa di Otto e ½  un’opera riuscita al massimo grado.

     Video 8 e 1/2 di Federico Fellini realizzato nella scuola Cristoforo Colombo

Ho preso spunto per questo articolo da due libri: Roberto Provenzano, Invito al cinema di Fellini, edito da Mursia, nel 1995; Giuseppe Di Giacomo e Claudio Zambianchi, Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, edito da Laterza, nel 2008.
 



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